In tempo di IA, il progetto blue-write intende valorizzare l’intelligenza umana.
Nelle settimane passate, noi di blue-hole abbiamo proposto un laboratorio in collaborazione con la Biblioteca “Don Gildo Iommi” del Comune di Montappone, Laura Marziali e Smart Village 2.0. I partecipanti hanno così avuto modo di suggerire un personaggio (Doria alla ricerca della sua amica scomparsa), un animale (scoiattolo), un colore (rosso) e un luogo (bosco) che la nostra autrice avrebbe poi utilizzato per creare un racconto.
Sperando il risultato di questo secondo esperimento narrativo vi piaccia e vi sorprenda, non ci resta che augurarvi una buona lettura.
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Parti
I.
Chi sono costoro? «Angeli caduti che non erano abbastanza buoni da essere salvati, né abbastanza cattivi da essere cancellati» dicono i contadini. «Gli dèi della terra» dice il Libro di Armagh. «Gli dèi dell’Irlanda pagana» dicono alcuni studiosi di storia, «gli dèi dei Túatha Dé Danann, che, quando non furono più venerati e nutriti con le offerte, si rimpicciolirono secondo l’immaginazione popolare, e ora sono alti solo poche spanne» […]. Non pensate tuttavia che le fate siano sempre piccole. Nel loro mondo tutto è capriccioso, anche la loro statura.
(W.B. Yeats, Irish Fairy and Folk Tales)
La brughiera al di là del finestrino del pullman scorreva placida e austera sotto agli occhi di Doria. Un mare di bruni e verdi sbiaditi, sterpaglie secche e ingiallite, che le ricordavano i campi sardi bruciati in estate. Ma lì, in Irlanda, nella contea di Wicklow, non era estate: era, anzi, sbocciata la primavera – del cui avvento, comunque, traccia non se ne percepiva affatto. E non un solo incendio doveva aver occasionato quei colori smunti: ai piedi delle montagne, sotto la coltre di nubi che faceva da tetto a campi brulli e sconfinati, quella povertà di luce e cromie era una sua prerogativa.
Stringendosi un poco di più nel suo giaccone, mal sopportando il freddo che da fuori, imperioso, penetrava il duro metallo del veicolo, Doria ripensava alla macchia mediterranea, alla sua varietà di piante e sfumature, al sole e alle temperature miti dell’Italia abbandonata in favore dell’escursione tra Dublino e dintorni. Con le cuffiette nelle orecchie, lasciava che melodie tristi tonalizzassero il panorama acuendo la nostalgia di casa.
D’un tratto, Doria sentì una gomitata sul bicipite che la costrinse a stoppare la musica.
«Ahia!» esclamò.
Eccitata, la sua vicina di posto sorrideva mostrando tutti e trentadue i denti perfetti, dritti e bianchi – l’apparecchio da poco dismesso, che, nel biennio antecedente, molte derisioni le era valso, aveva fruttato: una fila ordinata di piccole gemme di avorio ben sottolineava i suoi slanci entusiastici.
«È una ficata, no? Kilkenny era pazzesca! Quel castello, quel parco, i giardini… Avrò spedito a mamma una cosa tipo trecento foto: credo a momenti mi bloccherà su whatsapp» e scoppiò a ridere.
Doria, vedendola così esaltata, provò un calore nel petto, e il freddo che un attimo prima l’aveva soverchiata venne diradato dagli ardori della sua migliore amica.
Arianna era il suo preciso contraltare: se Doria era pragmatica quanto d’indole dimessa e cauta nel muoversi in un’esistenza di cui presagiva le insidie in agguato, Arianna era spregiudicata, audace, coraggiosa e ottimista. E quel sodalizio era servito a entrambe per facilitare l’insorgenza di un circolo virtuoso: a Doria era necessario per scovare quei tesori nascosti in anfratti di vita dal sembiante insipido, che la compagna, come fosse una sorta di super potere, non faticava a notare e condividere; ad Arianna per le prudenze a cui Doria sovente la invitava, le quali erano state in grado di discacciare taluni pericoli – per esempio, la volta in cui Doria l’aveva dissuasa dall’arrampicarsi sul ramo di un salice che, qualche giorno dopo, avevano ritrovato sul suolo a riprova della sua fragilità, scampandola dalla frattura di un arto.
Tuttavia, se era vero che i temperamenti erano distanti, a unirle in modo inestricabile era una spiccata sensibilità artistica. Doria era una devota della narrativa: studiosa diligente e lettrice onnivora, si dilettava nella scrittura (tra diario, modesti racconti e bozze di romanzi, provava a seguire la strada che i suoi autori preferiti avevano tracciato per quelli simili a lei). Arianna era l’erede delle storiche personalità che avevano fatto sì che dai critici venisse ideata la dicitura “genio e sregolatezza”: dipingeva e disegnava in preda a un fuoco mistico, guidata da una febbre ispirativa in cui riversava fantasticherie, sogni ed esorcizzava i demoni che albergano in ciascuno.
«Sì, dai», rispose Doria, «Il castello era grazioso, ma niente che a noi manchi, insomma…».
«E ci risiamo!», Arianna incrociò le braccia e sbuffò contrariata, «Ho capito: l’Italia ha tutto. C’ha la storia, c’ha l’arte, mare, colline, montagne e un numero spropositato di basiliche… Però, cavolo, respira l’aria, guarda questi paesaggi! È esagerato chiederti di essere un pelino felice per essere venute qui? Sperimentare una cultura diversa? Che palle, Do!».
Doria avrebbe potuto offendersi per le nemmeno troppo velate accuse, ma sapeva bene da cosa erano motivate: quella gita di terza media sarebbe stata l’ultima occasione in cui avrebbero potuto trascorrere quattro giorni e tre notti assieme. A settembre, la rispettiva scelta di iscriversi in licei differenti (per Doria il classico, per Arianna l’artistico) le avrebbe separate e, chissà, magari nuove amicizie, nuovi incontri e nuovi impegni avrebbero messo la parola fine alla loro relazione. Un timore da entrambe spartito e inconfessato: avendo condiviso materna, elementari e medie, si accingevano a compiere un salto nel buio e a catapultarsi nel futuro di giovani adulte che, facendole crescere, le avrebbe inesorabilmente cambiate. Più disillusa delle coetanee, Doria da un pezzo aveva smesso di credere alle fiabe del “per sempre vissero felici e contente”.
Doria afferrò la mano di Arianna e le sorrise: «Sono certa che Glendalough sarà fantastica. Ho letto la guida: ci sono le rovine del monastero, il cimitero antico, i laghi e il bosco. Vedrai, ci divertiremo un sacco».
Arianna, rinfrancata, sorridendo anch’ella, sporse il collo verso il vetro per osservare assieme a Doria la distesa bucolica, alla ricerca della testa cornuta di un cervide o dello zampettare di una lepre forastica.
Doria e Arianna erano arrivate da Roma a Dublino la mattina di due giorni addietro e la classe intera, facente parte di un istituto paritario bilingue, non era cosciente della fortuna in cui era incappata – le élite di rado sono consapevoli di esserlo, figuriamoci a tredici anni! Gli studenti delle scuole pubbliche, alla stessa età e al medesimo grado di studi, il massimo a cui potevano ambire erano una capatina a Firenze, a Napoli o, se si voleva eccedere, a Venezia. Per loro, invece – anche per sviluppare la padronanza con l’inglese –, era stata selezionata la verde Irlanda.
Raggiunto l’albergo che li avrebbe ospitati (un hotel nei pressi di Temple Bar, quartiere centrale della capitale, brulicante di vita, busker, gift shop e pub) e sistemati i bagagli, erano subito partiti in perlustrazione della città: pranzo al sacco per non perdere tempo e opportunità, avevano visitato le due immense cattedrali gotiche (Church of Christ e St Patrick), la galleria d’arte e il Trinity College.
L’indomani, ad attenderli alle 7.45 in O’Connel Street – in prossimità del The Spire (il “monumento della luce”: un pilone in acciaio alto centoventi metri) –, il pulmino prenotato dalla docente aveva sostato prima a Limerick (una manciata di minuti, giusto per ammirare la cittadina tagliata dal fiume Shannon e fare un paio di fotografie al King John’s Castle) e poi aveva imboccato la carreggiata della West Coast per condurre i discenti in quella che, dai turisti, era considerata una delle mete imprescindibili della nazione: le celeberrime Cliffs of Moher. Arianna a stento aveva tenuto a freno il suo stupore nel rimirare le impervie scogliere radicate nei fondali dell’Atlantico. E non il vento gelido, non quella pioggerellina fitta e molesta erano bastati a trattenere le sue corse lungo il viale: coi fluenti capelli ricci e ramati scompigliati dalle folate, increspati dalla salsedine, nelle sue iridi nocciola si rifletteva la meraviglia selvaggia di un luogo che l’uomo mai sarebbe riuscito ad addomesticare – proprio come nessuno mai sarebbe riuscito ad addomesticare lei. Doria, dal canto suo, aveva ammesso si trattasse di uno spettacolo inestimabile (non a caso eletto patrimonio UNESCO), ma il vero splendore era osservare l’amica che trotterellava di qua e di là, ora affacciandosi oltre il muretto che demarcava il sentiero per snidare le pulcinelle di mare o il frangersi delle onde sugli scogli, ora cercando di richiamare l’attenzione delle pecore che brucavano nel campo affianco. La vitalità di Arianna riverberava in Doria e destava in lei la bramosia dell’avventura bandendo timori e precauzioni, fosse per un attimo soltanto.
Il terzo giorno, l’itinerario prestabilito era il seguente: tappa a Kilkenny, tragitto sul pullman nella contea di Wicklow, tappa a Glendalough e ritorno in serata a Dublino.
Kilkenny si era rivelato essere un borghetto medievale la cui attrazione principale era l’omonimo castello. Stanze sterminate di ori e rossi, dipinti di varie dimensioni, camere con gli immancabili letti a baldacchino consunti e impolverati, e saloni per il pranzo con le tavole apparecchiate di porcellane pregiate quasi ci si aspettasse che, di lì a poco, lo spettro di un maggiordomo sarebbe comparso per prendere le ordinazioni degli avventori. Un maniero troppo maestoso, troppo sfarzoso sia per il gusto di Doria, sia per quello di Arianna (la quale, però, aveva analizzato, pedissequa, i quadri che l’avevano colpita, scattando fotografie mentali per carpire metodologie pittoriche e stesura degli oli). Quello che a entrambe era piaciuto era stato l’esterno: a nord-ovest della tenuta, i giardini ben curati, con la fontana circolare che, coi suoi spruzzi d’acqua cristallina, si eleggeva a vera regina del luogo; a sud-ovest, il gargantuesco parco: frotte di genti impegnate in passeggiate vuoi con carrozzine e marmocchi al seguito, vuoi con cani rigorosamente legati al guinzaglio.
Salutata Kilkenny, si apprestavano a giungere a Glendalough.
Un’ora o poco più tardi, il pullman accostò dinanzi il centro turistico.
«Two hours, guys», ammonì l’autista mentre i preadolescenti scendevano i gradini del veicolo, «Please, don’t be late!».
«Don’t worry, we’ll be on time», lo rassicurò la professoressa Palmeri; rivolgendosi agli alunni, comandò: «In fila indiana, in coppia, andiamo dentro e prendiamo le audioguide per il tour, i biglietti li ho io. De Filippo non fare casino, ti controllo. Forza: muoviamoci».
«Professorè, ma io devo andà al bagno!» piagnucolò un giovinetto.
«Ma vi avevo detto di andarci a Kilkenny!», la docente soffiò dalle narici una buona dose d’aria obbligandosi alla pazienza, «Dai, t’accompagno io. Doria, distribuisci i ticket ai tuoi compagni; entrate, fatevi dare le audioguide e rimanete qui. Intesi?».
Doria, quella “responsabile” (pur se non c’era stata un’investitura ufficiale, veniva considerata capoclasse), fece come la professoressa aveva ordinato e, intanto che l’insegnante si allontanava con Gabriele, con diligenza, prese a erogare i fogliettini.
«La cocca dei professori» la canzonò Arianna agguantando il suo, tirando fuori la lingua a mo’ di sberleffo.
«Ah, ah, ah. Che ridere. Scema».
Ciascuno biglietto-munito, gli scolari varcarono la soglia della casupola; esibendolo alle concierge, ricevettero in cambio l’audioguida. Quando fu il turno di Doria, non solo le venne data la sua, ma anche quelle per la Palmeri e per Gabriele. Quindi la classe uscì e attese il ritorno della professoressa.
Pochi minuti e il drappello fu di nuovo compatto, pronto all’esplorazione del monastero diroccato di St Kevin e del sepolcreto celtico che lo abbracciava.
Prima di infilarsi nelle orecchie le cuffiette, Doria si guardò attorno cercando l’inconfondibile chioma ribelle di Arianna, in modo tale da poter gironzolare l’una di fianco all’altra. Si volse in tutte le direzioni, salì in punta di piedi nel tentativo di sovrastare i membri della comitiva più alti di lei, ma niente. Arianna sembrava scomparsa. Il gruppo oltrepassò le toilette e Doria suppose che l’amica fosse stata colta dall’impellente bisogno di urinare – pur se taciuto magari per pudore o per non essere rimproverata dalla Palmeri.
Entrando nei bagni femminili, la chiamò.
«Arianna?» domandò. A parte l’eco della sua voce, non ricevette risposta alcuna.
«Arianna, dai, non fare la cretina!».
Silenzio.
Il battito cardiaco accelerò e uno strano moto di angoscia le ingarbugliò le viscere. Si scapicollò fuori e interrogò i dintorni: il parcheggio era vuoto a eccezione del pullman posteggiato a una ventina di metri; e sgombri erano pure il chiosco e l’area davanti al centro turistico. Subentrò l’affanno della paura (e della rabbia: con i suoi scherzi puerili, Arianna doveva sempre farla preoccupare!) e l’ossigeno pareva non bastasse a riempirle i polmoni. Sforzandosi alla lucidità, convenne che l’unica cosa da fare era riunirsi agli altri e informare la professoressa dell’improvvisa sparizione – sì, avrebbe messo l’amica nei guai, ma era maggiore l’importanza di saperla in salvo che beccarsi una nota disciplinare. Stava giusto per ordinare alle gambe di darsi una mossa che si sentì afferrata per la spalla. Si girò e, dietro di lei, una delle due concierge la guardava con un’espressione arcana, tra la dolcezza e l’alterità.
«Excuse me, I can’t find a friend of mine. Have you seen a girl with curly red hair?».
La donna le sorrise; le cinse ambo le spalle e si chinò, avvicinando il viso a quello di Doria. Piantò le sue iridi azzurre in quelle castane della ragazzina, e, in perfetto italiano, con una solennità dalla studentessa mai udita in precedenza, disse: «Non temere, lei è con loro. Ti stanno aspettando. Supera il cimitero, oltrepassa il ponte. Lasciati guidare dal canto degli alberi e dai sussurri del lago», le carezzò una guancia e le baciò la fronte, «Va’, adesso. Non voltarti e non fermarti. Altre creature dimorano in questi boschi».
Doria abbassò il capo e aggrottò le sopracciglia. Inebetita e perplessa, le ci volle più di un momento per riordinare i pensieri. Risollevandolo per chiedere delucidazioni, la misteriosa signorina era svanita. Ma, tra i rami di un cespuglio, giurò di vedere una coda spumosa e scarlatta.
II.
Pessima, pessima idea… ragionava Doria tra le tombe, torturandosi le unghie in preda al nervosismo. Non appena la classe aveva imboccato lo sterrato per la Round Tower, quatta quatta, era sgattaiolata via.
Oltre le lapidi (alcune antichissime, altre moderne), sorpassate le rovine della Cathedral of St Peter and St Paul e della Priest’s House – che non versava in condizioni migliori –, Doria scorse il ponticello menzionato. Lo valicò e si ritrovò su una strada asfaltata che mal si sposava con la natura rigogliosa che la attorniava: a sinistra, alberi, rocce muschiose e vegetazione incolta si inerpicavano lungo un’altura alle cui sommità cominciava il bosco vero e proprio, primitivo più del villaggio stesso (edificato da St Kevin tra V e VI secolo); a destra, pini silvestri si approssimavano alle rive del silente Lower Lake.
E lo chiamano lago: a me pare uno stagno, si ripeteva Doria, con una smorfia sprezzante che le accartocciava le labbra, acuendo l’innato disfattismo a causa dell’inquietudine provocata dalla mancanza di Arianna; un po’ la odiava, un po’ si convinceva a prestar fede alle parole dell’eccentrica concierge: l’amica stava bene ed era con “loro” – pur se questi “loro” non immaginava chi diamine potessero essere.
Il tempo uggioso, la ricerca spasmodica, la meta ignota, non facevano che accrescere l’atmosfera nefasta attagliata a quell’angolo d’Irlanda. Strati di nembi si addensavano minacciando pioggia, e l’esistenza del sole era ormai un ricordo sbiadito.
E camminava, Doria, camminava lesta ignorando la stanchezza, incitata dal solo proposito di ricongiungersi con Arianna e riportarla con sé; sospinta da un vento che, a ogni metro, aumentava di irruenza, quasi la volesse spronare.
Superato il Lower Lake, il passaggio si fece stretto e impervio. I rami dei faggi si estendevano oltre la linea di demarcazione segnata dal bitume, le grosse radici nodose combattevano l’asfalto per rivendicare sia la presenza, sia il territorio: il bosco si stava mangiando ciò che l’uomo aveva costruito, riappropriandosi di quello che aveva osato rubargli. Le fronde erano fitte a tal punto che, alzando la testa, Doria poteva intravedere a malapena che sprazzi di cielo bigio.
Dopo poco meno di un’ora, la traiettoria delle raffiche mutò in maniera repentina: anziché esortarla a continuare sulla via maestra, facevano pressione da destra, spintonandola nel cuore del bosco, invogliandola a immergersi nell’abisso della foresta. Doria si fermò. In simultanea confusa e guardinga, cedette però alla curiosità e si mise a osservare i tronchi degli alberi, cercando di penetrare con lo sguardo il ginepraio di legni, massi e rovi. Il sibilo dell’aria s’infiltrava nelle orecchie e, invischiato tra i bisbigli delle folate, udì un lamento, un pianto muliebre. Temendo fosse Arianna, aguzzò la vista: una sommessa nebbiolina si levò dal terreno umido e, nei miasmi che si condensavano, Doria individuò la silohuette di una figura femminile inginocchiata ai piedi di un frassino, bianca ed eterea. I gemiti che, man mano, si facevano più assordanti, le obnubilarono il senno e, come fosse soggiogata da un arcaico incantesimo, Doria fece per muoversi in direzione della creatura addolorata. Sentiva il suo richiamo, sentiva il suo malessere: sentiva che la voleva…
Stava per calpestare l’erba e addentrarsi nella selva, quando percepì microscopici artigli conficcarglisi nel polpaccio: un esserino si arrampicò, svelto, dalla coscia, alle scapole, per appollaiarsi, infine, sulla nuca di Doria. Aggrappandosi ai capelli lisci di lei, l’animaletto si sporse emettendo una specie di ruggito verso la donna. Quest’ultima, allora, si librò e, cacciando un urlo disumano – che obbligò Doria a tapparsi le orecchie e a genuflettersi –, venne inghiottita dalla caligine e sparì.
Scossa da violenti tremori, inginocchiata in terra, Doria permase rannicchiata, ancora con i palmi adesi alle tempie e le palpebre serrate dall’orrore.
Cosa cavolo è successo…?
Indecisa se darsela a gambe, restare immobile o scoppiare a piangere, optò per sollevare le ciglia. Di fronte a lei, con la testolina reclina da un lato, uno scoiattolo rosso acceso la guardava di rimando. Nel vederlo lì, con quegli occhioni neri che rilucevano di bizzarra intelligenza, in Doria si espanse una sensazione di pace e serenità che dissipò il terrore da poco esperito.
Rincuorata, si alzò.
«Ehm, sei per caso uno di… “loro”?» domandò titubante.
Lo scoiattolo si erse e annuì. Poi, squittendo, iniziò a zampettare riprendendo la strada. A una decina di balzi, si fermò e si girò ancora.
«Ok, vuoi che ti segua», rifletté Doria ad alta voce, e si affrettò per imitare l’andatura del roditore.
Certo era una bella fatica provare a stargli dietro: spesso aveva dovuto accelerare, quasi correre, per non ampliare il distacco. Purtuttavia, lo scoiattolo, di tanto in tanto, si arrestava per assicurarsi di non perderla. Affannata e sudata, Doria rimuginava e rimuginava in merito al fatto che doveva essere impazzita; che il suo raziocinio era defunto se si era ritrovata a essere scortata da uno scoiattolo e se persino gli parlava implorandolo di rallentare… Era una follia!
Se riesco a rimpatriare, una bella celletta imbottita e una camicia di forza. Riapriranno i manicomi giusto per me.
In quindici minuti, la bestiola e la ragazzina arrivarono all’Upper Lake – oh, quello sì che era un lago!
Ormeggiata sulla riva, una barchetta in legno, dismessa e malconcia, dondolava assecondando i capricci dell’acqua smossa dal vento. Senza esitare, lo scoiattolo ci montò sopra e si posizionò sul bordino della prua.
«Ah, io su quella cosa non ci salgo. Scordatelo proprio. Nossignore» sentenziò Doria impuntandosi.
Lo scoiattolo squittì in modo stridulo e continuativo, facendo vibrare il musetto baffuto e issando la folta coda con deliberata imposizione.
«E porca vacca quanto sei suscettibile! Va bene, va bene, non ti incavolare», Doria si avvicinò alla battigia e salì sulla scialuppa.
«Ecco, genio del male, non ci sono i remi. Mi dici co—».
Le lamentele di Doria vennero interrotte nell’attimo in cui l’imbarcazione avviò la navigazione autonomamente. Lei, da principio, fissò le pupille in quelle dello scoiattolo – il quale, lo si creda o meno, aveva assunto un’espressione compiaciuta –, quindi si affacciò a tribordo e la sorpresa ebbe la meglio: un banco di giganteschi lucci, nuotando sotto allo scafo, trasportava la barca con un’efficienza tale che né un motore, né un rudimentale vogare avrebbero potuto eguagliare.
Doria sorrise estasiata. Era stata cieca, ma, adesso, riusciva ad apprezzare – apprezzare davvero – lo scenario sublime che la circondava: il lago scintillava di piccoli bagliori; le squame dei pesci ne imperlavano la superficie di azzurri, verdi e gialli, e i flutti burrascosi che quel vigoroso sguazzare occasionava a poppa, si propagavano in leggiadre ondine che andavano morendo per ripristinare la mansuetudine dell’Upper Lake. Alle spalle di Doria, il bosco sempre più remoto; davanti a lei, un costone ornato di piante e muschi dava asilo a una grossa fenditura: il St Kevin’s Bed. Doria lo aveva letto nella guida e sapeva che non era possibile, per un turista, visitarlo (il massimo che gli era concesso era ammirarlo dal punto d’osservazione situato sulla sponda opposta). Ciononostante, lei non era una semplice turista: era diventata qualcos’altro e capì che, quell’anomalo plotone interspecifico di cui, suo malgrado, faceva parte, era lì che si stava dirigendo.
La scialuppa attraccò, il banco di lucci si disgregò e lo scoiattolo saltò giù. Erano prossimi all’antro in cui si narrava St Kevin si fosse rinchiuso, favorendo così sia la meditazione, sia l’eremitaggio.
Esibendo tutta la sua agilità, lo scoiattolo scalò la pietra e si fiondò nella caverna.
«Ehi, tu! Aspettami!», gridò Doria invano: l’animaletto si era già dileguato.
La ragazzina si inerpicò a sua volta, stando bene attenta a non mettere un piede in fallo per non slogarsi una caviglia. A ogni centimetro conquistato in altezza, un po’ si lodava per la maestria che stava scoprendo nell’arrampicata, un po’ lanciava delle ingiurie mentali al roditore che l’aveva abbandonata. Ma, con ostinazione, raggiunse l’entrata della grotta.
Doria varcò allora la spaccatura e si immerse nell’oscurità. La tetraggine la avvolgeva e il senso di claustrofobia incombette. Nondimeno, impavida, seguitò a camminare. La spelonca, a onta di quanto aveva studiato, era assai profonda. D’un tratto, il buio si ammorbidì e una luce distante rischiarò i margini del tunnel. Falena attratta dalla fonte luminosa, si affrettò per andargli in contro. E poi: l’inatteso.
Doria spalancò la bocca per l’incredulità: uno slargo circolare – che qualcuno avrebbe potuto definire uno stanzone – si apriva al termine della galleria. Distribuiti a mezzaluna, un raduno di scoiattoli di un rosso innaturale, con screziature scarlatte, la scrutava in silenzio. Quello al centro, il più anziano e paffuto, teneva tra le zampette un ramoscello. Dinanzi la congrega, seduta sul pavimento, con le gambe incrociate, c’era Arianna.
«Ahò, ma quanto c’hai messo?!» disse l’amica con il solito sorrisetto irriverente e divertito.
«Arianna!» esclamò Doria con un tono tra il sollievo e il rimprovero. Corse dalla compagna, si buttò per terra e la strinse a sé. Prima che potesse redarguirla, lo scoiattolo capo batté il bastoncino sul terreno invitando le ragazze alla quiete.
Doria si ammutolì, si inginocchiò composta e si mise a indagare l’ambiente.
Vi erano numerose torce in legno appese alle mura rocciose e, tra le file dei fuochi che ardevano perenni, degli incavi erano stati scavati per consentire la creazione di minuscoli giacigli foderati di licheni e paglia. Incastonata nella parete prospiciente all’entrata, di schiena agli sciuridi, signoreggiava una grossa teca in cristallo, al cui interno erano riposti oggetti antiquati: una spada, la punta di una lancia, un calderone, una pietra e una clava. Sulla destra, fuori dalla vetrina, un’arpa d’oro brillava vanitosa. Sulla sinistra, una bara in ferro, sulla quale, in bassorilievo, erano incise una croce celtica e una scritta in gaelico.
«Bambine, non abbiamo molto tempo», proruppe il vecchio scoiattolo – per poco a Doria non prese un infarto sentendolo parlare; mentre ad Arianna, che già era al corrente della loro magia, scappò un risolino in risposta alla reazione dell’altra –, «Sono secoli che vi attendiamo e vi prego di ascoltare bene cosa abbiamo da dirvi: siete le prescelte di un sacro onere. La nostra vita, e quella dell’umanità intera, sono nelle vostre mani».
Ci fu un minuto di silenzio atto a corredare la gravità dell’informazione condivisa. Doria, allora, cogliendo l’opportunità, alzò un braccio.
Gli scoiattoli parvero confusi; fu Arianna a decifrare il gesto di Doria: «Scusatela, crede che siamo a scuola. Vuol dire che ha una domanda da fare» e, a mezza bocca, borbottò: «di già…».
«Ehm, sì», Doria si schiarì la voce, «Signor scoiattolo… Sua eccellenza? Vostra… santità?».
«Rivolgiti a me pure con la parola Bórd».
«Ok, va bene. Bórd, perché, se siete in grado di dialogare, l’esemplare che è venuto a prendermi non mi ha spiegato nulla?».
«Perché non possiamo comunicare al di fuori di qui, stupidina!», esordì lo scoiattolo all’estremità sinistra del semicerchio, «Ma guarda un po’ che sfrontata, anziché ringraziarmi per averti salvato dalla Banshee hai il coraggio di lamentarti!».
Doria arrossì: «Chiedo scusa, io non lo sapevo…». Nonostante l’imbarazzo, un nuovo dubbio usurpò il posto della vergogna ridestando la loquacità: «Però le Banshee, ecco… io so che non sono creature malvagie. Ho letto che—».
«Ma la pianti di fare la secchiona?», la rimbeccò Arianna, «Vorrei farti notare che siamo in una caverna in mezzo a una tribù di scoiattoli parlanti, forse c’è qualcosa che persino tu non sai, no?», rivolgendosi alle bestiole, aggiunse: «Continuate, la mia amica, qui, se ne starà zitta».
Beh, era il caso di tollerare che per una volta Arianna avesse piena e indiscussa ragione…
«Dici bene, Doria “la condottiera”», nell’appellativo con cui Bórd la etichettò, ulteriori quesiti invasero la psiche di Doria (comunque, si morse la lingua e tacque), «Altresì, dice bene anche Arianna “la purissima”: non è stata trasmessa ai posteri la storia corretta e dovete sforzarvi di dimenticare ciò che avete appreso dai libri. Le Banshee, è vero, in passato furono le protettrici di talune casate, pur se erano vincolate da un compito ingrato: comparivano a chi era prossimo alla morte, indi vennero tacciate di essere portatrici di sciagure. Nei secoli, estinguendosi le famiglie cui erano assegnate, si incattivirono. Oggi, incantandoli con lamenti e pianti, carpiscono escursionisti ignari per nutrirsi delle loro anime. Il medesimo abbrutimento è toccato ai Pooka e ai Leprecauni, la cui avidità è cresciuta tramutandoli in assassini. Noialtri, siamo qui per proteggere il genere umano da queste creature. E da se stesso».
Bórd si sedette su un sassolino, sospirando.
«Ora, ripeto, ascoltate con attenzione. Vi narrerò la verità sui quattro tesori d’Irlanda e sugli dèi dei Túatha Dé Danann: Nuada, Lúg e il Dagda, anche conosciuto come Ruadh Rofhessa, “il rosso della scienza perfetta”».
Il racconto di Bórd ebbe inizio e le due bambine, facendo appello a tutta la concentrazione di cui disponevano, udirono senza interrompere l’anziano scoiattolo.
I Túatha Dé Danann furono un popolo di navigatori e conquistatori che, nel corso di innumerevoli viaggi, giunsero al fine, stanziandovisi, a Ériu (nome primigenio dell’Irlanda) di cui divennero, a conti fatti, gli antenati della popolazione che abita l’isola e delle terre a essa contigue. Adoravano la Grande Madre, la Dea Danu; ma la denominazione “Túatha Dé Danann”, a dispetto delle apparenze, originò da tre giovani della tribù, progenie di una donna di nome Danann, tanto esperti e sapienti nelle arti druidiche, in quelle della guerra e dell’edilizia che furono chiamati dalle proprie genti i “tre dèi di Danann”. Costoro erano, appunto, Nuada, Lúg e Dagda.
Tra i vari spostamenti, dalle isole a nord della Terra, dalla Grecia al Lochlann, dall’Alba in Ériu, i Túatha Dé Danann recarono con sé i tesori prelevati dalle città delle isole settentrionali nelle quali appresero le dottrine segrete e le arti mistiche. Suddette città erano Fálias, Gorias, Finias e Murias. A Fálias sottrassero Lía Fáil, la “pietra del destino” – con un grido, se calpestata dall’uomo legittimo, decretava chi avrebbe assunto il comando di Ériu. A Gorias, la Sleá Bua, la “lancia della vittoria” – nessuna battaglia fu vinta contro chi la brandì. A Finias, la Clíam Solais, la “spada di luce”, invincibile quanto la lancia. In conclusione, a Murias, il Coire an Dagda, il “calderone del Dagda”, capace di sfamare legioni intere, inesauribile fonte di nutrimento.
«Potete scorgere qui, a tergo, i quattro tesori d’Irlanda, di cui siamo i protettori e i guardiani. Diffidate, dunque, delle copie che spacceranno per autentiche: sono dei falsi, delle sciatte repliche senza potere alcuno. A ogni modo, ciò che poc’anzi vi ho rivelato è noto ai più, ma è il seguito che è stato tramandato in maniera errata. E questo seguito ha un unico protagonista: il Dagda, “il Dio Buono”».
Il Dagda, appurata la sete di potere e conquista che, negli anni, aveva corrotto i fratelli, giurò di far da sé tutto ciò che gli altri dèi avevano promesso e, in un secondo momento, tradito. Anziché sterminare e assediare con Nuada e Lúg, elargiva miracoli e proteggeva i raccolti governando il meteo. Con la sua clava magica – che mai fu strumento di offesa – ridonava la vita ai defunti meritevoli. Spesso, per placare gli ardori degli uomini, suonava l’arpa d’oro: essa era in grado di calmare chi era preda della collera, di assopire o far esplodere l’ilarità. Fu grazie a questo portentoso strumento musicale che, un dì, pizzicandone le corde, il Dagda addormentò i fratelli sottraendogli la pietra, la lancia e la spada. Privati della loro forza, Nuada e Lúg perirono nell’ennesima inutile battaglia.
Vagando per tutta Ériu, il Dio Buono giunse a Glendalough e, essendo all’epoca una landa selvaggia e disabitata, reputò fosse il luogo consono per nascondere i tesori: fossero caduti nelle mani sbagliate sarebbe stata l’estinzione dell’umanità. Scavò la roccia e, nella neonata grotta, trovò un rifugio per sé e per le armi.
«Divenuto solo, temeva non avrebbe potuto garantire l’incolumità delle persone. Fu così che ci creò: rinunciò alla sua immortalità e alla sua magia per infonderla nei suoi sciuridi…» Bórd tacque abbassando il muso. Una lacrima scivolò dal suo occhio destro e la commozione contagiò il raduno, financo le due bambine, le quali, nell’apprendere il sacrificio del Dagda per la sicurezza globale, sentirono le cornee bruciare e inumidirsi.
«Lui morì», riprese Bórd racimolando energie, «le sue spoglie giacciono qui in segno di gratitudine e memento del dovere accordatoci. Sapete, dai celti gli scoiattoli sono stati considerati sin dagli albori simbolo di affidabilità, per questo il Dagda ci predilesse. Eravamo pronti, eravamo all’altezza, giurammo non l’avremmo deluso. Eppure, nei secoli cominciammo a soccombere uno dopo l’altro. Da principio non capimmo; poi comprendemmo: persistiamo in virtù della fede delle persone, ciò che ci tiene in vita è il ricordo del vero folklore di Ériu. Gli irlandesi ci stavano dimenticando. Nel 542, St Kevin s’arrischiò in questa caverna e scoprì della nostra esistenza. Piuttosto che bandirlo, raccontammo a lui quanto stiamo raccontando a voi, e si impegnò per divulgarlo. Proliferammo nuovamente, eravamo migliaia. Alcuni di noi sapevano trasmutare, e si introdussero nelle comunità sottoforma di donne e uomini per aiutarlo. Tuttavia, maggiore era la durata lontano dalla spelonca, più tergiversavano nella carnalità antropomorfa, più obliavano il contatto con le proprie radici. Gli sforzi di St Kevin e dei cari compagni risultarono vani».
Sostenuto dagli scoiattoli che gli stavano di fianco, Bórd si tirò su e, puntellandosi con il bastoncino, fece un paio di passi stentati.
«Siamo rimasti in tredici, ma ora siete qui, depositarie dell’avvenire. Tu, Doria, scriverai: consegnerai alle generazioni future la verità sul Dagda e sul suo raduno di scoiattoli. Mentre tu, Arianna, dipingerai il ciclo delle gesta del Dio Buono. Riponiamo in voi credo e speranze».
Doria e Arianna assentirono convinte, nemmeno per un istante dubitarono della sincerità degli sciuridi, e accolsero l’incarico con solennità.
«Bene, il colloquio volge al termine. Un ultimo monito, bambine: non riferite mai l’esatta ubicazione dei tesori. Quando i tempi saranno maturi, vi appariremo», Bórd ruotò il capo verso lo scoiattolo della congrega accanto all’arpa e disse: «Ceoltóir, suona».
Una soave melodia si levò nell’aria, carezzevole ed ebbra di tenerezze. Doria e Arianna ne godettero giusto per pochi attimi, prima di crollare in un sonno profondo.
III.
«Mancini! Per me è un estremo piacere fare la sua conoscenza», disse una donna avvicinandosi allo stand. Alle sue spalle, imbarazzati, un bambino sui quattro anni – avvinghiato con le manine alla di lei camicetta – e una ragazzina di poco più grande che stringeva sull’addome il secondo capitolo de Gli scoiattoli del Dagda, guardavano con venerazione l’ideatrice della saga accomodata al di là del banchetto.
«La prego: solo Doria» replicò sorridendo la scrittrice.
Il viso della madre si illuminò. Quindi, rivolgendosi alla primogenita, la spronò: «Manuela, dà a Doria il libro, così ce lo autografa».
Col capo chino e le gote vermiglie, Manuela passò il volume all’autrice. Doria lo afferrò, lo aprì e domandò al fratello: «E tu, piccolino, come ti chiami?».
Il bimbetto mugugnò qualcosa di inintelligibile con la faccia affondata nel grembo della mamma.
«Si chiama Raffaele», fu lei a tradurre il mugolio emesso dal figlio, «Lo perdoni ma è un po’ timido. Hanno adorato la prima storia e sono impazienti io gli legga il seguito. Mi dica: sono previsti altri episodi?».
Doria, intanto che appuntava una dedica personalizzata sotto al titolo, rispose: «In verità sì, abbiamo un contratto per cinque capitoli. Poi: si vedrà; i propositi sono molteplici, glielo assicuro. Mi spiace che non sia presente la mia collega, vi avrebbe potuto fare un disegnino, ma si è dovuta assentare per qualche minuto», la penna scivolò sul foglio con maggiore velocità – segno che Doria era arrivata alla firma – e, tirando su il naso dalla carta, riconsegnò l’albo a Manuela: «Ecco a te, spero vi piacerà».
«La ringrazio», affermò la madre, «Per il disegno non si dia pena, sarà per la prossima occasione».
«Glielo prometto: a costo di incatenarla qui, Arianna ci sarà. Arrivederci!».
«Arrivederci a lei!».
La famiglia congedò Doria per reimmettersi nella calca che affollava il Roma Convention Center – La Nuvola: la sede che stava ospitando la Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria della capitale. Nondimeno, dopo qualche passo, avvinta dalla curiosità, la signora sfogliò il cartonato e recitò ai figlioli ciò che l’autrice aveva redatto per loro.
«“A Manuela e Raffaele, perché non smettiate di sognare; con l’augurio che anche la vostra sia una vita piena di magia. Con affetto, Doria Mancini”. Che carina!», i bambini annuirono soddisfatti, «Adesso forza, ché papà ci aspetta».
E i tre vennero inghiottiti dalla moltitudine.
La sveglia suona ma, a dispetto delle altre mattine, Doria fatica a disserrare lo sguardo. Le membra sono intorpidite, la ragione è addormentata, eppure l’inconscio è ben desto: intrappolata in un regno onirico stravagante, saturo di scoiattoli parlanti e scarlatti, boschi pericolosi e laghi incantati, Doria non è in grado di lasciarselo indietro per sollevare le palpebre e tornare alle mansioni quotidiane.
Si avvoltola tra le lenzuola come fosse preda di un incubo, gocce di sudore le bagnano la fronte; il trillo dell’allarme del cellulare, testardo, persevera in un concerto senza pubblico.
D’un tratto, una voce familiare – nascosta da vent’anni in qualche anfratto dell’ippocampo – risorge e, imperativa, tuona: «È il momento! Doria la condottiera: svegliati e rammenta!».
Doria si tira su a sedere sul materasso con uno scatto. È affannata, il petto si alza e si abbassa celere, scomposto; il cuore martella nella cassa toracica. Confusa, mentre pezzi di sogno si incastrano e si trasformano in pezzi di ricordi, Doria si allunga verso il comodino per spegnere la sveglia. Spalanca gli occhi rinvenendo, accanto allo smartphone, tre sassolini.
E questi…?
Li impugna per esaminarli. Su un lato delle pietre sono incisi dei simboli; delle rune, suppone – pur se non sa decifrarne il significato. Tenendoli nel palmo, facendoli roteare, d’improvviso, in un flash che la investe e la sovrasta, rimembra ogni cosa: Glendalough, gli sciuridi, i Túatha Dé Danann, i tesori d’Irlanda, il Dagda…
Scombussolata, si riappropria del telefono. Prima che possa scorrere nella rubrica il numero che cerca, quello prende a squillare e, sul display, appare un nome che non leggeva da un’eternità: Arianna.
«Pronto» risponde.
«Li hai sognati anche tu, vero?» chiede Arianna all’altro capo della cornetta senza salutare.
«Sì. Le rune?» domanda Doria.
«Ah, so’ rune ‘sti sassi? Me li so’ trovati sotto al cuscino…».
Doria vorrebbe ridere: Arianna si è trasferita a Bologna da un lustro e non ha perso l’accento romano. Ciononostante, il livore glielo impedisce.
«Non abbiamo scelta, glielo abbiamo promesso. Io devo scrivere, tu devi dipingere» sentenzia Doria.
«È un’idiozia», ribatte Arianna, «Non dobbiamo operare in solitaria. Te lo dico io come è meglio agire: libri illustrati per bambini. È così che allargheremo il target: la fetta di adulti che leggerà le fiabe a figli e nipoti e le nuove generazioni che cresceranno con le autentiche gesta del Dagda e dei Túatha Dé Danann».
«Ma la congrega è stata chiara, Bórd ha detto ch—».
«Do!», la interrompe spazientita l’altra, «So’ un branco de scoiattoli, che ne sanno di come oggi ha più senso muoversi? Ma ti credi che se facessi una personale qui verrebbero miliardi di persone? Dovrei ringraziare Dio o chi per lui se ne attirassi una dozzina!».
«Raduno», precisa Doria, «Un gruppo di scoiattoli si chiama raduno, non branco, dato che sono animali solitari».
Il sospiro estenuato di Arianna giunge distinto nell’orecchio di Doria.
«Come ti pare. Allora? Sei d’accordo?».
«E tu vorresti lavorare con me…?».
«Doria, ci chiariremo. Il rancore non può impedire la responsabilità che abbiamo. È stato uno stupido bisticcio tra amiche», fa una pausa, «E io ti voglio ancora bene…» confessa.
Doria si ammutolisce. Una lacrima le solca una guancia; la soffoca all’istante asciugandola col polsino del pigiama.
«Hai ragione» conviene.
«Fico. Mi preparo e parto per Roma».
C’erano voluti mesi per concepire l’impalcatura della trama, per trovare il giusto equilibro tra rivelazioni e omissioni, edulcorando i fatti più violenti non consoni a degli infanti; come per ottenere il perfetto bilanciamento tra parola e disegno e per ingaggiare l’agenzia letteraria idonea cui affidare il lavoro. Entusiasmi e ottimismi si erano interscambiati con frustrazioni e pessimismi, in un ciclo che, a un certo punto, sembrava non si sarebbe concluso mai.
Cinque anni dopo il ricongiungersi di Doria e Arianna – tra pianti, abbracci e invocazioni di reciproco perdono –, invece, il primo volume era stato piazzato sul mercato e, complice l’impensato successo di vendite e richieste, non solo esso era incorso in un paio di ristampe, ma l’editore aveva stilato un contratto con il duo vincolandolo per ulteriori quattro capitoli: i bambini impazzivano per gli scoiattoli magici di Ériu e per le avventure degli dèi di Danann, come erano sedotti dai colori pastello e dalle linee morbide delle illustrazioni di Arianna che tappezzavano gli albi. Il direttore e il caporedattore avevano iniziato persino a vaneggiare la possibilità di approdare alla televisione con dei cartoni animati e di commissionare gadget promozionali e balocchi ritraenti i simpatici scoiattoli rossi ad aziende specializzate nel settore.
Arianna tornò allo stand. Sulle spalle aveva un grosso zaino da escursionista e, in braccio, teneva quello altrettanto imponente di Doria.
«Sei pronta? Se non ci diamo una mossa perdiamo il volo» l’avvertì Arianna.
«Sì, sì» Doria si alzò dalla seggiola e acchiappò il suo bagaglio.
Accomiatandosi dai collaboratori, si diressero verso Fiumicino.
Il viaggio fu sereno, non una turbolenza lo disturbò. L’aereo atterrò puntuale a Dublino alle 15.45 sotto a un cielo terso, col risplendere di un sole alto e inconsueto per quella porzione di mondo. Doria e Arianna lo reputarono un segnale di bentornate che le incoraggiò e rinvigorì gli umori. Ad aspettarle fuori dall’aeroporto, c’era la vettura che Arianna si era premurata di affittare.
«Ma tu sei sicura di saper guidare a sinistra, sì?» domandò Doria perplessa entrando nell’automobile.
«Ma sì, che ci vuole! Basta fare al contrario: sono un’esperta in questo!».
Entrambe scoppiarono in risa sguaiate e si misero in moto alla volta di Glendalough.
Doria era stanca, eppure non si assopì: rivedere quei paesaggi, quasi li avesse appena lasciati, coi suoi nuovi occhi da adulta, era un’esperienza cui non avrebbe rinunciato. L’Irlanda era bellissima, con gli illimitati campi in cui brucavano pascoli di greggi, bovini ed equini.
La tratta durò a malapena un’oretta e Arianna posteggiò di fronte al centro turistico.
Subito imboccarono il sentiero dei laghi, stupendosi dell’assenza di forestieri. Quando furono in prossimità del bosco udirono un gran fracasso. Sollevarono perciò lo sguardo e li videro: sugli alberi, centinaia di scoiattoli scarlatti, tra squittii e soffi gutturali, battevano sulle cortecce dei tronchi delle ghiande a mo’ di applauso.
Doria, nel constatare che avevano vinto, che erano riuscite nell’impresa, cominciò a singhiozzare e ridere al contempo, coprendosi le labbra con una mano per non cedere del tutto alla commozione; Arianna, da buffona quale era, elargì dapprima un pomposo inchino, poi, tirandosi su, strinse tra le braccia la migliore amica. Le diede un bacio sullo zigomo e, nell’orecchio, le sussurrò: «Te lo dicevo io: il “per sempre vissero felici e contenti” esiste».