In tempo di IA, il progetto blue-write intende valorizzare l’intelligenza umana.
Nelle settimane passate, noi di blue-hole abbiamo chiesto agli utenti Instagram di suggerirci un genere, un personaggio e un oggetto che la nostra autrice avrebbe poi utilizzato per creare un racconto.
I vincitori per ogni categoria, ovvero i commenti con più “mi piace”, sono stati: la biografia, un giovane schizofrenico e un orologiaio (parimerito) e una sparachiodi e la plastilina (parimerito).
Sperando il risultato di questo primo esperimento narrativo vi piaccia e vi sorprenda, non ci resta che augurarvi una buona lettura.
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Il ticchettio
ovvero
Come il Dr. Carlton Winterbottom divenne L’Orologiaio
I.
Fin troppo spesso, nella vita, accade che il concetto di fine e quello di inizio si fondono e confondono. Sebbene impariamo sin dalla tenera età a distinguere linguisticamente le due parole come ossimoriche e oppositive, nell’esperienza di tutti i giorni apprendiamo invece come l’una contenga il seme dell’altra; a farle germogliare: il punto di vista.
È invero un accadimento talmente quotidiano e comune, alla portata di ciascuno di noi, che sottolinearlo rasenta la banalità più tediosa. Ciò nonostante mi preme fartelo presente, lettore, in quanto la storia che stai per leggere ha la sua fine, come il suo inizio, in un’altra parola; un lemma insospettabile che se tu non fossi già al corrente di ciò che è accaduto son certo ti stupirebbe alquanto.
La suddetta parola è: sparachiodi.
La sparachiodi emerse dalla plastilina durante la seduta del 21 dicembre.
L’ultima.
Lui era agitato. Distratto. Più caotico nell’esposizione di quanto non fosse stato nei mesi precedenti e non nego che, quel giorno, stavo facendo un’enorme fatica a stare al passo con i suoi sragionamenti.
Lo pregai dunque di sfruttare quello stesso strumento da me fornitogli che molte altre volte era accorso in nostro aiuto – data la sua storica predilezione per la manualità – per rinsaldare la presa sulle briglie del suo sempre più latente raziocinio.
Afferrò la plastilina controvoglia e prese a rigirarsela tra le mani.
Il respiro affannato.
Gli occhi che guizzavano da un angolo all’altro della stanza.
Tirava spesso su col naso – più un tic nervoso che non il segnale di un incombente raffreddore.
Io attesi.
Dopo dieci minuti posò il materiale plastico sul tavolino prospiciente alla sua seduta.
«Sparachiodi» disse.
Una sentenza.
Oggi lo so.
Mi chiamo Carlton Winterbottom e sono stato il terapeuta di Kieran Langley dall’autunno del 2016 all’inverno del 2020.
Quantunque la pergamena della mia laurea, il diploma di dottorato e gli attestati delle specializzazioni fossero appesi alle pareti del mio studio, non c’è mai stato verso né di convincerlo del mio ruolo e della mia professione, né di rendergli chiara la natura del nostro rapporto: per lui sono sempre stato l’orologiaio – convinzione che ci ha portati entrambi alla rovina.
Quella che mi appresto a scrivere, lettore, è la sua storia.
Molto mi sono interrogato in merito al se redigerla o meno e, soprattutto – in caso avessi optato per la stesura di questo documento –, a chi l’avrei destinata. Persuaso al fine dalle circostanze a intraprendere questo viaggio, dopo un primo momento in cui mi è sembrato più consono rivolgermi a un target di colleghi e specialisti, ho deciso invece di interloquire con un pubblico più vasto. Non vi saranno tecnicismi – non più del necessario, insomma – o frasi che a te, lettore comune, potrebbero risultare ermetiche e, così, scoraggiarti nella continuazione di questo tentativo di biografia. Tuttavia mi preme specificarti immediatamente che non sono un letterato e che non ho pretese artistiche: ciò che leggerai vuole essere niente di più, niente di meno che un documento d’esistenza, una testimonianza di umanità.
Sarai tu, alla fine, a stabilire di chi.
Kieran nacque a Londra il 13 gennaio del 2000, sperato e, al contempo, inatteso.
Sua madre, Carol Langley, è stata quella che comunemente vien definita una “primipara attempata”.
Nel 2017, io e Mrs Langley, ci accordammo per incontrarci nella di lei dimora di Mayfair – un bell’appartamento spazioso con diverse camere – per discutere di Kieran e della sua terapia. In quell’occasione, oltre a poter vedere con i miei occhi la “stanza da lavoro” del ragazzo – di cui parlerò in seguito, ma basti sapere al momento che in questo modo lui soleva chiamarla –, potei conoscere più a fondo Mrs Langley nonché i primi anni di vita del mio paziente – essendo uno psicoterapeuta cognitivo-comportamentale ho la tendenza a focalizzarmi sul presente con l’intenzione di agire sull’immediato futuro, piuttosto che concentrarmi sul passato.
Rammento che mi colpì molto la sua grazia: come mi passò la tazza da tè – le unghie curate, smaltate di un tenue rosa pallido; il gesto di portare i capelli dietro l’orecchio – le perle che aveva ai lobi; il suono della sua risata dimessa che tradiva una sofferenza antica e mai abbandonata… Sfogliava l’album fotografico mentre mi raccontava le vicende che sin lì ci avevano condotti e non potevo fare a meno di provare un senso di tenerezza ed empatia per quella signora tanto sfortunata.
Lei e suo marito, William Langley, un magnate dell’industria automobilistica, si sposarono quando lei aveva solo ventitré anni e lui quaranta. Mi ha raccontato che il loro fu un grande amore e che dovettero mettere a tacere molte malelingue in quanto si conobbero che lui era già maritato a un’altra donna.
Ottenuto il divorzio, Carol e William celebrarono il loro matrimonio nella primavera del 1980.
I primi anni passarono lieti, eppure, a un certo punto, un pensiero costante andò ad annidarsi nel talamo nuziale: Carol non riusciva a rimanere incinta.
Quel pensiero, col tempo, crebbe a dismisura e divenne una vera e propria ossessione.
Seguirono esami, visite specialistiche, cure ormonali; quando la medicina tradizionale non condusse a soluzioni o risposte, si rivolsero persino a sedicenti fattucchiere che promettevano il controllo della fertilità. Montagne di soldi che i coniugi Langley investirono nel sogno di divenire genitori. In tutto ciò non si soffermarono mai sulla possibilità di un’adozione: Carol agognava il grembo gonfio e pulsante della gravidanza, William di tramandare il suo nobile lignaggio.
Come le più belle favole, quando ogni speranza sembrava ormai perduta, all’età di quarantadue anni Carol scoprì di aspettare un bambino.
Ma non tutte le favole hanno un lieto fine.
La gravidanza fu problematica sin dal suo esordio e si risolse, infatti, in un parto prematuro e sofferto: Kieran vide la luce di questo mondo alla trentunesima settimana dal concepimento.
Dopo un periodo in ospedale a completare il suo sviluppo nell’incubatrice, corredato da alternate spinte di terrore e speranza dei signori Langley, Kieran fu portato a casa col benestare dei medici che lo avevano in cura.
Il bambino era sano, dissero.
E sano, in effetti, appariva.
E vispo.
E precoce.
Mrs Langley mi raccontò che Kieran parlava perfettamente già a un anno. Ridendo, sosteneva che il difficile fosse farlo stare zitto.
Era socievole e curioso.
La sera, quando metteva il bambino a letto, Mr Langley aveva l’abitudine di narrare al figliolo i miti dell’antica Grecia per cui aveva sempre nutrito una strabordante passione: Aracne, Narciso, Prometeo, Eracle e le sue fatiche – tutto l’Olimpo a servizio dell’intrattenimento del piccolo erede che assorbiva quelle nozioni con avidità.
Mrs Langley, in quell’occasione, mi mostrò molte fotografie dei primi anni di vita di Kieran: non potei fare a meno di notare che il bambino, in quasi tutte le immagini che lo ritraevano, portava sempre con sé varie tipologie di costruzioni. Incuriosito dalla ricorrenza, chiesi a Carol di parlarmene.
Kieran ricevette la sua prima confezione di costruzioni all’età di due anni, un regalo di compleanno da parte dello zio paterno – Mr Oswald Langley.
Forse ti starai chiedendo, lettore, perché io spenda tempo e parole nell’approfondimento di questo particolare aspetto dell’infanzia del nostro oggetto di studio dato che potrebbe apparire superfluo; presto detto: l’incontro tra Kieran e i suoi primi mattoncini (erano di gomma, piuttosto grandi e variopinti, idonei a un bambino di due anni) fu epifanico. E, in seguito, in un certo qual modo, da me sfruttato in sede terapeutica.
Kieran, ricevuto il suo prezioso dono, cominciò a spendere le sue giornate edificando piccoli templi e strutture direttamente espunte dal mondo immaginifico che lo abitava: quello della mitologia. Vi fu sin da subito una stretta correlazione tra le storie che suo padre soleva raccontargli la sera e la progettazione delle sue costruzioni. Quando, a sua detta, eresse il tempio di Cnosso e il correlato – nonché celeberrimo – labirinto, non ci fu verso di farglielo smontare. Oltre la caparbietà che il piccolo manifestò nel non consentire che qualcuno lo demolisse, un altro dato emerse con particolare forza: Kieran non aveva bisogno di altri personaggi; a popolare quei luoghi bastava la sua fantasia. Lui vedeva il minotauro; lui interloquiva con Arianna; lui spronava Teseo. Ma era solo un bambino, del resto, e per i bambini il gioco – lo saprai di certo anche tu, lettore – ricopre un ruolo di capitale importanza: offre l’opportunità di esercitare controllo, esplorare il mondo che li circonda, sviluppare competenze sociali ed emotive. Le narrazioni che accompagnano l’attività ludica degli infanti sono necessarie per creare, raccontare e comprendere storie. I signori Langley, colpiti dalla dote immaginativa del figlio, reputarono opportuno preservarla e coltivarla, quindi comperarono a Kieran altre tipologie di mattoncini cosicché il tempio di Cnosso potesse rimanere integro.
Tuttavia, per Kieran – più che per altri bambini della sua età – i mondi che prendevano forma dinanzi i suoi grandi occhi scuri non erano una replica di quelli più o meno reali da cui traevano ispirazione, erano quelli. Non un “come se”, ma un “come assolutamente è”.
E nessuno se ne rese conto.
Certo, oggi è semplice far delle dietrologie. Oggi è fastidioso e banale andare a dirsi: «È lì che è cominciato tutto, sarebbe stato il caso intervenire in quell’esatto momento»; oppure: «Sarebbe stato chiaro a chiunque avesse avuto nozioni base di psicologia». La verità è che, col senno di poi, siamo tutti grandi esperti di tutto poiché possiamo contare su quegli stessi strumenti esperienziali che abbiamo ottenuto come sorta di risarcimento proprio grazie (o a causa) di vissuti più o meno traumatici. Il difficile è barcamenarsi nel presente, leggere correttamente e in maniera estemporanea taluni attimi che possono, col tempo, simboleggiare veri e propri bivi esistenziali. Dunque sii buono, lettore, con una madre e un padre che interpretarono quei momenti come null’altro che il segnale di un dono mirabile elargito al figliolo da dèi benevoli, poiché Kieran sembrava esser stato baciato dalle muse. Non biasimare due genitori che vollero vedere quei giochi per quelli che poi, in altre circostanze, sarebbero effettivamente stati: giochi, per l’appunto. Semplici, innocenti giochi. E ancora, lettore, sii buono con me poiché se è onesto ammettere che molto ho studiato per arrivare dove sono arrivato, che avevo numerosi anni di esercizio della professione alle spalle quando Kieran fu portato nel mio studio, è altrettanto vero che sono solo un uomo e, in quanto tale, fallibile. Non ho doti preveggenti, né mi interesserebbe averle.
Ma lascia che io riprenda il filo. Tenterò, d’ora innanzi, di concedermi delle digressioni solo se necessarie.
Kieran e i suoi giochi.
Kieran e le sue costruzioni.
Kieran e la sua fantasia.
E ancora: Kieran e l’amore di mamma, Kieran e le storie del papà.
Non accadde nulla di particolarmente degno di nota in quegli anni; i Langley vivevano la loro routine come molte altre rispettabili famiglie inglesi.
Ma poi, un brutto giorno, un tragico avvenimento andò a distruggere tre vite: due in senso metaforico, una in senso letterale.
Era la sera del 14 agosto 2005. Di lì a un mese Kieran avrebbe iniziato a frequentare la scuola privata eletta dai suoi genitori come la più valida della City. Solo il meglio per l’erede dei Langley.
Se sei genitore, lettore, avrai ben chiaro il bouquet di emozioni e sentimenti che si prova nel periodo che precede questo importante step della vita di un figlio: l’orgoglio va a mescolarsi con l’aspettativa, la paura con l’eccitazione, il dolore per un’imminente separazione con la felicità di accompagnare il cucciolo fuori dalla tana. I coniugi Langley non furono un’eccezione: scalpitavano e temevano l’arrivo di quel giorno. Ma, nel frattempo, si godevano le loro consolidate abitudini. Abitudini che avevano un nonsoché di rituale.
Sveglia alle 7.00 del mattino.
Tutti lavati e vestiti, colazione al grande tavolo del salone alle 8.00 in punto.
Alle 8.30 Mr Langley esce di casa per recarsi a lavoro.
Alle 9.00 escono Mrs Langley e Kieran per sbrigar commissioni e fare compere. Nello stesso momento, arriva la donna delle pulizie che si mette a rassettare, lavare e spolverare mentre la Signora e il bambino sono via – ogni volta la stessa raccomandazione: «Cara, lasci le costruzioni intatte, per favore».
Il pescivendolo, il macellaio, il fruttivendolo, il fornaio. Il tabaccaio per acquistare i sigari preferiti di Mr Langley, il negozio di cosmetici per rimpinguare le scorte di creme e make up di Mrs Langley.
Un salto a Saint James Park per dar da mangiare alle papere le molliche degli sfilatini invenduti del giorno prima – che il panettiere mette da parte proprio per Kieran e sua madre; una passeggiata nel verde, un gelato alla vaniglia il giovedì.
Poi la boutique di abiti preferita da Mrs Langley – per vedere se c’è qualche nuovo arrivo – e il giocattolaio per Kieran – ancora: per vedere se c’è qualche nuovo arrivo nel reparto costruzioni.
Una volta al mese: parrucchiere per la madre, barbiere per il figlio.
Alle 12.30 Mrs Langley e Kieran rincasano e pranzano con il cibo che la donna delle pulizie – che, in effetti, solo “donna delle pulizie” non è – fa trovare pronto in tavola.
Mrs Langley ringrazia, la paga e la saluta. «A domani, cara» le dice.
Dopo il pasto Mrs Langley riordina gli acquisti, mentre Kieran se ne va nella sua cameretta e si mette a costruire.
Mrs Langley legge un buon libro, mentre Kieran è nella sua cameretta a costruire.
Mrs Langley guarda un po’ di televisione, mentre Kieran è nella sua cameretta a costruire.
Mrs Langley si prepara del tè, domanda al bambino se ne vuole una tazza, ma Kieran è troppo concentrato nella sua cameretta a costruire.
Mrs Langley porta dei biscottini al figlio, mentre Kieran è nella sua cameretta a costruire.
Alle 18.30 Mr Langley ritorna. La moglie gli versa due dita di whiskey in un bicchiere – rigorosamente senza ghiaccio – e il marito, degustando alcol e sigaro, ragguaglia la consorte su come la giornata sia andata. Tutto questo, ovvio, mentre Kieran è nella sua cameretta a costruire.
Alle 19.30 si cena tutti assieme allo stesso tavolo del salone: Kieran deve smettere di costruire.
Alle 20.00 Mrs Langley fa il bagnetto a Kieran.
Alle 20.30 Mr Langley mette Kieran a letto e gli racconta il mito di turno.
Questo fu il programma che, con piccole variazioni, i Langley rispettarono con estremo rigore dal 2002 al 2005.
Quel giorno, quel lunedì d’agosto, non andò in modo differente.
Mr Langley era nella stanza del bambino a narrargli le gesta di qualche eroe greco in contrasto con una divinità capricciosa e volubile.
Carol era a letto ad attendere il marito.
Ma non fu Mr Langley a raggiungerla una mezz’ora dopo. Fu Kieran.
Il bambino, Carol mi raccontò, era più confuso che spaventato quando informò la madre che il padre si era “addormentato”.
Forse la paura arrivò solo quando il grido di Mrs Langley risuonò per tutta Mayfair. Ma di questo non posso esserne certo: in quei terribili momenti, nessuno prestò eccessiva attenzione a Kieran. Non i medici dell’ambulanza – ahinoi, inutili: non poterono far altro che constatare il decesso; non Mr Oswald Langley che piombò nell’appartamento del fratello e della cognata pochi minuti dopo. E, soprattutto, non Carol: lo shock che subì alla vista del cadavere del marito tanto amato, riverso sul pavimento della cameretta del bambino, l’avrebbe accompagnata per molti anni a venire tanto da sottrarla ai suoi doveri e alle sue responsabilità di madre.
William Langley morì la sera del 14 agosto per un infarto fulminante all’età di sessantacinque anni.
Lasciò una moglie devota e un fratello affezionato.
Ma, soprattutto, un trauma indelebile nella mente del figliolo.
Quella notte, Kieran conobbe la morte.
II.
La stanza da lavoro non nacque dall’oggi al domani con intento programmatico, ma sorse un po’ per volta da una sorta di risemantizzazione a opera di Kieran di una camera che, inizialmente, aveva un altro scopo e un altro proprietario: era lo studio di Mr Langley.
Dell’originario arredo rimase solo la grande scrivania in quercia; il resto, negli anni, venne via via sgomberato per far posto agli attrezzi e ai materiali che Kieran recuperava qui e lì – alle volte li acquistava in negozi specializzati nel bricolage e fai da te, più spesso andava a raccattarli nei pressi di cassonetti dell’immondizia. Tavole di compensato, stoffe, pezzi di metallo o di legno: la spazzatura di qualcuno è la risorsa di qualcun altro. Questa pare fosse la grande (e forse unica) massima di Kieran.
Quando la vidi, quando vi entrai, fu come ritrovarmi all’interno della mente di Kieran. C’era un gran disordine e un penetrante odore di chiuso – mi restò nelle narici per settimane.
La finestra della camera era coperta dai brandelli di una tenda consunta e logora e delle assi di legno erano inchiodate al muro così da sprangarla. La luce dell’esterno, perciò, filtrava a malapena.
Carol provò imbarazzo nel mostrarmela. Dopotutto, il resto dell’appartamento era maniacalmente curato; ogni ninnolo e gingillo, colore o forma, in perfetta armonia coi suoi intorni. Quella stanza, invece, appariva come un’onta al decoro, un’offesa alla stessa padrona di casa, la quale, premendo l’interruttore della luce elettrica per darmi modo di meglio osservare, abbassò il capo e parve impegnarsi con tutta se stessa per non gettare l’occhio oltre la soglia. Pure quando io oltrepassai la linea di demarcazione immergendomi nel mondo privato del mio paziente, lei se ne rimase nel corridoio e continuò a rispondere alle mie domande con lo sguardo ancorato alle punte delle sue Mary Jane laccate di nero.
Quello che mi trovai dinnanzi, comunque, lo definii tra me e me come un “cimitero di progetti abortiti”.
Il tavolo – come si diceva: la fu scrivania di Mr Langley – era addossato al muro, costretto tra il lato corto e il lato lungo della camera a pianta rettangolare, sulla destra dall’entrata; era saturo di utensili disposti senza logica apparente. Riconobbi un trapano, diversi martelli, un’infinità di cacciaviti, dozzine di chiodi sparsi ovunque, fogli di cartavetrata e brugole; poi: altri attrezzi a cui io non seppi dare un nome avendo sempre avuto poca dimestichezza con questo genere di cose. Centinaia di strumenti, gli uni ammassati sugli altri, in un caos soverchiante a tal punto che, lì per lì, non mi permise di notare l’ormai famosa sparachiodi.
Di certo pensai che non era consigliabile che Kieran, nelle sue condizioni, manipolasse arnesi potenzialmente letali (e, in quella stanza, quasi ogni cosa lo era), ma il ragazzo non sembrò mai essere incline alla violenza – né verso se stesso, né verso altri – e confesso non me ne curai quanto avrei dovuto. Anche perché la mia attenzione fu rapita non tanto dalla tavola e dagli oggetti che la rivestivano, quanto dal pavimento.
Kieran, era palese, costruiva seduto in terra, al centro esatto della camera – lo ipotizzai perché era l’unico metro quadro del pavimento a essere sgombro. Lo spazio restante era tanto zeppo di cianfrusaglie varie da non consentire il cammino all’interno della stanza senza rischiare di inciampare.
C’era, ad esempio, un tavolinetto da giardino poggiato sul suo stesso ripiano, ribaltato: due gambe arrugginite, due ripulite. Accanto a esso vi era una lattina di vernice blu, intonsa. Carol mi disse che il tavolo era lì da tre anni.
Poco più in là vi era uno sgabello di legno disteso su un fianco con tre gambe. Ma non uno sgabello a “tre gambe”: semplicemente ne mancava una che giaceva qualche centimetro più in là, impolverata. Carol mi informò che lo sgabello era lì da cinque anni.
C’erano poi diverse abat-jour: a una mancava il paralume, a un’altra la lampadina, a un’altra ancora entrambe le cose. Ma, accanto a esse, in bella vista, era adagiata l’esatta parte che necessitavano per essere ultimate.
In un angolo c’era poi anche un grosso reticolo di metallo – credetti che quel groviglio fosse la base per un materasso – modellato, tagliato e ricongiunto per creare una specie di gabbia. Ma non seppi dire cosa quell’ammasso ferroso fosse (o sarebbe diventato se Kieran avesse concluso il suo lavoro).
E, ancora, scatoline senza coperchi, tentativi di scaffalature e abbozzi di cornici.
Le mie erano solo impressioni, del resto; giocavo a indovinare quale fosse lo scopo di tutti quei materiali poiché ogni oggetto (un proponimento) che popolava il pavimento non era ultimato. Nemmeno uno.
Un cimitero di progetti abortiti, per l’appunto.
Volutamente abortiti? Casualmente abortiti? Delle semplici dimenticanze? Delle costanti procrastinazioni?
È vero che i soggetti affetti dalla stessa patologia di Kieran hanno difficoltà a mantenere la concentrazione e l’incapacità di organizzare il proprio pensiero in maniera logica può tradursi anche nelle azioni che paiono, allora, disconnesse: come se il ponte che collega lo stimolo e l’adempimento di un certo agito crollasse all’improvviso lasciando il soggetto nel mezzo di un’operazione che non ha più ragion d’essere né nel suo principio, né nella sua conclusione.
Ma non era il suo caso.
Io ebbi il forte sentore che un programma, dietro l’apparente inconcludenza, ci fosse. Pensai che l’aspirazione di quella stanza fosse proprio quella di erigere un monumento all’incompiuto. Kieran non ultimava i suoi progetti non perché non ne fosse in grado o se ne dimenticasse, ma perché non voleva farlo. Era il processo ad avere pregnanza e significazione, non la fine. Questo perché la fine, sul suo palato, non avrebbe avuto il dolce sapore del traguardo, ma il rancido retrogusto della sconfitta.
Rammento che accolsi questa considerazione come una certezza; tuttavia non so dirti, lettore, quando e perché nella mente del mio paziente le cose cominciarono ad adottare un simile funzionamento. Potrei però, forse, azzardare un’ipotesi e, per far ciò, dobbiamo riprendere le fila del nostro discorso.
Torniamo, dunque, alla sera del 14 agosto 2005.
Mr Langley, negli ultimi minuti della sua vita, stava narrando a Kieran il solito mito della buonanotte. E se non fosse riuscito a concluderlo lasciando il figliolo in un limbo di domande irrisolte?
Oppure: se, invece, lo avesse concluso l’istante prima di avere l’infarto creando così una strettissima correlazione tra la fine della storia e la fine della vita? E, ancora, se “la fine della storia” avesse cominciato a ingurgitare ogni tipo di conclusione nella mente di Kieran, andando a simboleggiare un limite invalicabile oltre il quale c’è solo la morte? Questo spiegherebbe perché Kieran fu sempre molto attento a non ultimare i suoi lavori.
Mi rendo ben conto che queste ipotesi possono apparire azzardate, ma permettimi di ricordarti che il funzionamento della psiche del mio paziente non era comune o assimilabile a quello di un altro bambino di cinque anni.
Provai, nel 2017, a cercare risposte a suddetti quesiti. Sfortuna volle che l’unica persona che avrebbe potuto fornirmele era Kieran stesso e lui non ricordava nulla. Bada bene: non di quella sera, ma del padre in generale.
Ti chiederai come è possibile sia avvenuta una rimozione tanto estrema. Suppongo il trauma sia stato tanto violento da costringerlo ad andare a rinchiudere il capitolo “Mr Langley” in un cassettino della sua psiche obliato dal tempo.
Seguimi, lettore, perché questo è uno snodo importante della vicenda che mi sto impegnando a narrarti: improvvisamente, per Mrs Langley, erano rimasti solo lei e il figlio. Per Kieran, da quella sera, erano sempre stati solo lui e la madre.
Carol si accorse di questa rimozione solo tre anni dopo, quando, a fatica, cominciò a riemergere dalla depressione che quel decesso improvviso aveva causato.
Me lo ha raccontato lei stessa durante il pomeriggio trascorso nel suo appartamento.
Mr Oswald Langley, dopo la morte del fratello, si addossò la responsabilità del sostentamento della cognata e del nipote – un brav’uomo, parecchio affezionato a entrambi. Ancora oggi è lui che si occupa degli affari di famiglia avendo ereditato la società automobilistica del fratello – della quale, fino a prima della di lui scomparsa, era comunque il vice.
Kieran sembrava aver incassato il colpo (anche perché, ribadisco, nessuno sospettava cosa stesse accadendo nella psiche del bambino): passava le sue giornate nella solita cameretta, placido e tranquillo, con i suoi mattoncini. Di conseguenza, la preoccupazione e le attenzioni di Mr Oswald furono canalizzate tutte su Carol.
Da donna amorevole e sempre presente, elegante e ordinata, divenne uno spettro incapace di compiere le più semplici mansioni nel rispetto della cura della casa e del sé.
Il cognato la costrinse quindi a farsi visitare da un neurologo, il quale le somministrò delle benzodiazepine e dei correttivi dell’umore.
Gli psicofarmaci elargiti con tanta semplicità su chi sta affrontando un lutto, senza l’affiancamento di un adeguato sostegno psicoterapeutico atto all’elaborazione, hanno nove volte su dieci l’effetto di un tappo. Non una risoluzione, ma un contenimento. Carol, stanca di sentire dolore, come era prevedibile accadesse, si lasciò sedurre dalla promessa che le medicine dichiaravano: un canto di sirena che la consegnò a un quasi perenne stato sonnambolico.
Kieran iniziò le scuole primarie.
Con la madre in quelle condizioni e lo zio indaffarato tra lavoro e accudimento della cognata, passarono in sordina i mutamenti che si verificarono nel bambino. Egli parlava sempre di meno e, se interrogato, cominciava a faticare nell’esposizione lineare dei suoi ragionamenti. Gli insegnanti, da principio, credettero che l’allievo fosse affetto da una qualche patologica forma di timidezza e, dovendo badare ad altri venti bambini, non essendo Kieran un alunno “problematico”, lo lasciarono buono a fare da solo i conti con se stesso.
Tre anni dopo, Mrs Langley venne convocata dalla scuola.
Erano presenti due insegnanti e una psicologa che lavorava come consulente presso l’istituto.
Durante il colloquio, Carol non solo apprese che la figura paterna era stata cancellata dal vissuto di Kieran – ciò era emerso grazie a un compito in classe –, ma che il suo isolamento era diventato ancor più drastico: non parlava con i coetanei e rispondeva a malapena ai maestri. Per di più, un fatto sconcertante impensieriva la psicologa: il ragazzo, appena poteva, sgattaiolava in uno dei bagni, si rinchiudeva e parlava da solo. Erano stati i suoi compagni ad avvertire i docenti e, dopo aver verificato la fondatezza di quelle voci, avevano allora deciso di domandare alla madre se il comportamento di Kieran fosse anomalo anche a casa.
Allarmata da ciò, Mrs Langley tornò in sé e accettò di buon grado il contatto che la consulente le porse: quello di Frances Stanley, una psicologa infantile da cui Kieran rimase in cura fino all’età di sedici anni, quando venne mandato da me.
Purtroppo non so molto del lavoro terapeutico che Kieran svolse con la collega. Ho provato a rintracciarla nei mesi scorsi ma tanto alle mie lettere, quanto alle mie telefonate – essendo impossibilitato, come sai, a raggiungerla – non ha mai risposto. Dunque temo dovrai accontentarti di ciò che sono riuscito a ricostruire assieme alla disponibilità di Mrs Langley.
Quando Kieran incontrò la dottoressa Stanley aveva otto anni. Quest’ultima tranquillizzò Carol dicendole che una volta affrontato ed elaborato il lutto, il bambino sarebbe tornato quello che era sempre stato; che le sue risposte al tragico evento di cui era stato testimone erano del tutto naturali per un soggetto sensibile come lui era; che, insomma, non c’era il rischio d’insorgenza di patologie più serie e preoccupanti. Dovette ricredersi qualche anno dopo, quando le sintomatologie di Kieran si acuirono.
Ma, nel frattempo, Mrs Langley nel sentir quelle parole tirò il proverbiale sospiro di sollievo: suo unico compito era monitorare il bambino nell’ambiente domestico, parlarci il più possibile e riportare alla dottoressa qualsiasi accadimento le fosse apparso come quantomeno particolare.
Kieran andava in terapia una volta alla settimana, il venerdì pomeriggio. Il resto del tempo lo passava a scuola o nell’ex studio di Mr Langley che cominciava a prendere le sembianze della già citata stanza da lavoro.
Cercava la solitudine, questo è vero, ma Carol non la reputò mai un’anomalia in quanto il bambino era sempre stato piuttosto indipendente. Anche quel costante parlottare tra sé e sé a Mrs Langley non suonò allarmante: erano i suoi giochi, era la sua immaginazione, si ripeteva.
Ogni tanto provava a immetter nei loro discorsi la figura sfocata di Mr Langley ma il figlio elargiva la sua attenzione con parsimonia. Quando Carol si rese conto che le sole parole non servivano a destare le memorie di Kieran, si avvalse delle immagini: gli mostrò le fotografie che li ritraevano assieme sotto consiglio della dottoressa Stanley.
Kieran aveva ormai undici anni.
Quell’esperimento iniziava sempre alla solita maniera: «Chi è quell’uomo, mamma?” chiedeva Kieran. «Questo è tuo padre: William» rispondeva lei. Stava una mezz’ora a rivangare ricordi, lui l’ascoltava e poi, a un certo punto, girava i tacchi e si andava a rintanare nella camera dove costruiva.
Il giorno dopo il copione si ripresentava tale e quale.
Ogni tanto tentava Mr Oswald, ma con lui le cose andavano persino peggio: Kieran sembrava riuscisse a dialogare solo con sua madre.
Così fu per qualche mese.
Carol, fiaccata da un lavoro che non dava nessun frutto, tormentata anche dal suo trauma che pareva dovesse rivivere giorno dopo giorno senza che il dolore fosse finalizzato a uno scopo che lo avrebbe giustificato, si arrese e smise di provare. Mi disse che temeva che se avesse continuato sarebbe ricaduta ella stessa nella depressione dalla quale a stento era riuscita a emergere e, dato che Kieran aveva bisogno di lei, non poteva rischiare ciò avvenisse.
La pubertà e la preadolescenza non modificarono l’assetto della personalità del ragazzo.
Dormiva meno, cercava la solitudine con più smania, era reticente alle uscite ma, da un lato, nulla che fosse snaturante per la sua indole; dall’altro, tutti aspetti comuni per i ragazzi di quell’età.
Una sola cosa veramente nuova emerse in quegli anni: Kieran lamentava una sorta di acufene. Un ronzio, a essere specifici, che, a intermittenza, lo infastidiva a tal punto da parlarne alla madre.
Mrs Langley fece visitare Kieran con l’intento di scoprire l’origine di questo fastidio; la causa non fu rinvenuta a livello fisico – non erano presenti infiammazioni, allergie o corpi estranei all’interno dell’orecchio – quindi i medici suggerirono che potesse essere una problematica legata all’emotività. Ma, prima che prescrivessero al ragazzo una cura a base di psicofarmaci, il ronzio, così come era arrivato, cessò.
Quella fu la prima allucinazione uditiva che comparve nella storia sintomatica di Kieran. Perlomeno: la prima a essere dichiarata.
Il tempo passava e le cose, anziché migliorare, andarono peggiorando.
Non solo la figura paterna si ostinava a non riemergere nei ricordi di Kieran, ma anche convincerlo ad andare a scuola – e, in generale, uscire di casa – stava diventando complicato. Il ragazzo provava una grande angoscia alla sola idea di starsene rinchiuso tra le quattro mura della classe, alla mercé dello sguardo degli altri: aveva quattordici anni quando confessò alla madre che era convinto i compagni lo prendessero di mira e che confabulassero qualcosa di malvagio assieme agli insegnanti. Per quanto Mrs Langley reputò strano che alunni e professori si alleassero per complottare contro un altro studente, comunque si recò nell’istituto per chiedere delucidazioni ai docenti – di cui non metteva in dubbio la buonafede, ma temeva un qualche episodio di bullismo che magari era andato verificandosi senza che loro se ne fossero accorti. Quelli, come era ovvio accadesse, negarono ogni accusa: Kieran ignorava i coetanei tanto quanto i coetanei ignoravano lui; nella classe, oramai, il giovane Langley figurava come sorta di pezzo d’arredo: taciturno, perso nei suoi pensieri, sedeva al suo banco nel fondo dell’aula. Da solo. E lì, immobile e apparentemente impassibile, trascorreva le ore fino al trillo della campanella; quindi, raccogliendo in fretta e furia le sue cose, non andava via: lui fuggiva. I professori, oltretutto, rincararono la dose delle apprensioni materne mettendola al corrente del fatto che il ragazzo non studiava più e che, con ogni probabilità, avrebbe perso l’anno.
Rincasando, Mrs Langley provò a confrontarsi col figlio, a pregarlo di tornare a studiare; gli disse che era intelligente e che era un peccato gettasse al vento le sue potenzialità. Per tutta risposta Kieran l’accusò di essersi unita al piano crudele ordito da professori e studenti contro di lui.
Carol ci mise oltre due mesi a convincerlo che così non era.
Arriviamo a maggio 2016.
Mrs Langley aveva preso ad assecondare ogni guizzo emotivo del figlio nel tentativo di proteggerlo da tutte le minacce che egli percepiva nel mondo. Aveva smesso di andare a scuola. Persino Mr Oswald si faceva vedere sempre più di rado poiché al ragazzo non andava granché a genio: averlo in casa lo agitava e il tempo di ripresa, ovvero quello di ritorno a una parvenza di tranquillità dopo ogni visita, era sempre più lungo. Kieran era a suo agio solo con la madre. Solo di lei si fidava. Il resto degli abitanti della Terra erano tutti, nessuno escluso, una potenziale minaccia. A quei tempi, aveva preso a mal sopportare persino la dottoressa Stanley.
Fu proprio lei a telefonare a Carol il pomeriggio del 12 maggio 2016 pregandola di raggiungerla nel suo studio la mattina seguente.
Durante l’appuntamento, la collega confessò a Mrs Langley che temeva Kieran avesse una patologia ben più grave di ciò che aveva sospettato originariamente; che aveva atteso nella speranza che la terapia li conducesse agli esiti agognati. Tuttavia, quei risultati apparivano sempre più come dei miraggi inarrivabili, inconsistenti, e che era il caso Kieran fosse ricoverato per un tempo di degenza da stabilire in una clinica nella quale operava un luminare della psichiatria di sua – e mia – conoscenza: il dottor Charles Wright.
La clinica in questione era il Bethlem Royal Hospital.
Il fine del ricovero quello di arrivare a una diagnosi precisa per un intervento psicoterapeutico più mirato. Plausibilmente, affiancandovi anche dei farmaci.
I tempi d’attesa per questioni di siffatto genere, di solito, possono essere anche piuttosto lunghi. Nondimeno, complici l’urgenza, le conoscenze e i mezzi economici a disposizione della famiglia Langley, Kieran venne ricoverato nell’ottobre del 2016.
I medici dell’ospedale presero in carico il paziente senza precisare una data di rilascio. C’erano esami da fare, domande da porre, comportamenti da monitorare.
Insomma: si sarebbero presi il tempo necessario per accertarsi delle condizioni dell’allora sedicenne.
Ma, come si suole dire, fecero i conti senza l’oste.
Kieran si sentì ingabbiato, il suo nervosismo scaturì in attacchi d’ansia che sfociarono in un attacco di panico che lo portò allo svenimento.
Quando Mrs Langley, a nemmeno una settimana dal ricovero di Kieran, andò a trovarlo nell’orario di visita, il ragazzo, piangendo, l’accusò di volersi liberare di lui, che lo voleva abbandonare lì tra quei loschi figuri che lo trattavano come fosse una cavia da laboratorio. Nel sentir quelle incriminazioni, alla povera Carol si strinse il cuore e non ci fu verso di convincerla a tener lì il paziente ancora per qualche giorno: firmò i moduli di rilascio e se lo portò via persuasa del fatto che quel luogo, al figliolo, facesse più male che bene.
Fortunatamente il dottor Wright aveva avuto modo di osservare Kieran nel poco tempo avuto a disposizione, ed era persino riuscito nell’ardimentoso cimento di farlo rispondere a una manciata di test diagnostici. Quel tanto era bastato per partorire un verdetto che, alle orecchie di Mrs Langley, arrivò con violenza, reticenza e una punta di terrore: schizofrenia con sintomatologia per lo più positiva.
Kieran avrebbe dovuto cominciare una cura a base di antipsicotici e intraprendere un percorso con uno psicoterapeuta di stampo cognitivo-comportamentale.
Quello psicoterapeuta, ridondante specificarlo, fui io.
III.
Se quei primi mattoncini di gomma furono epifanici per Kieran, avere l’opportunità di osservare la sua stanza da lavoro lo fu per me.
Il collegamento che feci tra i suoi attrezzi e la plastilina con ogni probabilità fu occasionato dai giochi dei figli di mia sorella, i quali, a quei tempi, trovavano sommo diletto nel manipolare il materiale plastico. Del resto era un anno che cercavo uno strumento che mi consentisse sia di far parlare il mio paziente, sia di metterlo a suo agio e, dato che replicare nello studio l’ambiente in cui Kieran si dava al fai da te non fu mai un’opzione, la plastilina si dimostrò una valida alleata: nelle giornate in cui Kieran era particolarmente abulico o taciturno io tiravo fuori dal cassetto della mia scrivania la plastilina, gliela porgevo e, invitandolo a modellarla, gli domandavo cosa vedesse infine nella forma che essa aveva assunto tra le sue mani. Una sorta di test di Rorschach attivo anziché passivo. L’oggetto – o, alle volte, persino il sentimento – che Kieran lasciava emergesse da questo esperimento ci serviva per dare il via alle nostre sedute.
Le connessioni che Kieran elaborava ed esprimeva non erano mai arbitrarie e quando, nel 2019, presero a verificarsi delle occorrenze di un certo tipo mi illusi che il nostro lavoro terapeutico stesse riuscendo nell’intento in cui la dottoressa Stanley, Mrs Langley e Mr Oswald avevano fallito, ovvero quello di far riaffiorare nei ricordi di Kieran la figura di Mr William Langley.
Suddette occorrenze riguardavano la mitologia greca.
Da principio fu la parola “serpente” – Kieran investì la sua ora narrandomi di Medusa e delle Gorgoni.
Seguirono “roccia” (mi raccontò di Sisifo), “ala” (mi parlò di Icaro), “nave” (fu la volta di Giasone e degli Argonauti) e tante altre ancora nei mesi che vennero. Io lo lasciai sempre parlare poiché trovavo strabiliante quanto fosse lucido e preciso nell’affrontare simili tematiche: se nell’esposizione d’altro era claudicante, se i suoi ragionamenti si smarrivano, si accartocciavano su loro stessi andandosi ad annodare in un groviglio inestricabile di insensatezze, quando mi raccontava di eroi e divinità elleniche Kieran sapeva tramutarsi in un’altra persona. Non solo era ordinato nelle sue dissertazioni, sereno e quasi sognante, ma tanto accurato che avrebbe potuto tenere una lezione sulla mitologia a Cambridge capace di far impallidire il più esperto grecista in circolazione in Gran Bretagna. Credetti allora che questi argomenti fossero il mio filo di Arianna da seguire non solo per riportare armonia nella psiche di Kieran (nel tentativo di espandere a macchia d’olio quella razionalità in altri lidi) ma anche per far “risorgere” Mr Langley. Dopotutto, lettore, mi era palese che egli non avesse dimenticato proprio ogni cosa.
Cominciai a gettare le mie esche con semplici domande, quali: «Dove hai imparato queste cose?», o anche: «Da dove deriva questo tuo interesse per la mitologia greca?». Ma il ragazzo spesse volte non rispondeva e si ammutoliva, o, più di rado, diceva solo: «Lo so e basta». Se mi azzardavo a suggerire io dei responsi a tali quesiti tornava a ossessionarlo il ticchettio. A quel punto, la nostra seduta poteva dirsi conclusa nel peggiore dei modi.
Il ticchettio che dettava il tempo ai suoi sospetti.
Alle sue ansie e alle sue manie di persecuzione.
Il ticchettio che decretò, come scrivevo in apertura, la mia persona come quella dell’orologiaio.
Di nuovo, facciamo un salto indietro e torniamo nel 2016, quando il dottor Wright, a seguito della diagnosi, diede il mio contatto a Mrs Langley.
Kieran, accompagnato dalla madre, varcò la soglia del mio studio (nonché della mia dimora, dato che esercitavo in casa) il 12 ottobre 2016.
Aveva sedici anni e un percorso complesso davanti a sé.
Lo salutai stringendogli la mano, impegnandomi a risultare il più affabile possibile di modo che la prima impressione fosse positiva.
Lui mi scrutò con aria interrogativa ricambiando il gesto.
Quando congedai Carol e scortai Kieran all’interno dello studio, il suo sguardo si fece più sospettoso e notai che prese a fissare l’orologio da taschino che solevo appuntare al mio panciotto.
Sono sempre stato convinto che è lo psicologo a dover misurare il tempo delle sedute. Ho perciò scelto sin dagli esordi di non affiggere alle pareti della stanza in cui esercitavo la mia professione orologi a muro che risultassero evidenti ai miei pazienti – e che, perciò, potessero distrarli o insinuare fretta e ansie ulteriori che sarebbero magari andate a sommarsi alle motivazioni per cui essi venivano a richiedere il mio aiuto.
Decretare l’inizio e la fine dei sessanta minuti di terapia è sempre stata una mia responsabilità.
Questa mia… chiamiamola pure “fissazione” per il controllo del tempo, a Kieran – il quale, se voleva, era ricettivo come pochi altri soggetti incontrati lungo il corso della mia carriera – non passò inosservata. Eppure, a dispetto del fatto che essa nacque con l’intento di deresponsabilizzare i miei pazienti, il ragazzo andò progressivamente a interpretarla come una sorta di delirio di onnipotenza o giù di lì.
«Allora, Kieran, sai perché ci troviamo qui?» esordii una volta rimasti soli.
«No» rispose.
«Il dottor Wright o tua mamma non ti hanno informato?»
«No» disse ancora. I suoi occhi, ridotti a due fessure, sempre infilzati sul quadrante del mio orologio.
Notando il suo interesse per l’oggetto, lo sfilai dal gilet e feci per porgerglielo.
«Ti piace questo?», domandai, «Se vuoi puoi vederlo da vicino».
Il ragazzo si portò entrambe le mani alle orecchie con una velocità che mi fece trasalire, chinò il capo e strabuzzò gli occhi.
«Via! Mettilo via», urlò, «Questo rumore mi sta facendo diventare pazzo! Il ticchettio, il ticchettio. Dappertutto!», si alzò dalla poltrona sulla quale si era appena accomodato diretto verso la porta, con l’intenzione di uscire, reiterando in una specie di singulto la parola “ticchettio”.
Mi sollevai anche io.
«Lo metto via, Kieran», mi affrettai a rassicurarlo, «Guarda» aprii il cassetto dello scrittoio, lasciai cadere al suo interno l’orologio e lo richiusi mostrandogli le mie mani ormai libere, «Vedi? L’ho messo via, non ci disturberà più. Ti prego, torna a sedere» lo invitai.
Kieran rimase di fronte la soglia per qualche minuto. Lentamente, però, liberò le orecchie e il fastidio si diradò dalla sua espressione. Guardingo, tornò quindi verso la poltrona.
«Non ti capisco a te», sentenziò accasciandovisi, «Come fai tutto il giorno a stare in mezzo ai ticchettii? C’è da diventar scemi in mezzo a questo casino. Ti sei scelto proprio un lavoro impossibile».
«Che lavoro ho scelto?»
«Orologiaio».
E fu così che da psicologo mi tramutai in orologiaio.
Per quanto, dalla nostra seconda seduta in poi, mi assicurassi di levare sempre l’orologio da taschino prima del suo arrivo, oramai il ragazzo mi aveva catalogato in questo modo e, come ho già ammesso, non ci fu verso di fargli cambiare idea.
I primi mesi furono quelli di settaggio: entrambi prendevamo le misure sull’altro per capire come muoverci nei nostri dialoghi stentati. Compresi presto che se mi poneva delle domande su di me era il caso io rispondessi, che non ci avrebbe portato da nessuna parte il mio trincerarmi dietro la massima secondo la quale il paziente meno sa del terapeuta, meglio è. Considerati i suoi sospetti e le sue manie di persecuzione, assecondare le perplessità e i quesiti che egli mi poneva era l’unica maniera per guadagnarmi un briciolo della sua fiducia. Purtroppo, i miei responsi andavano a cozzare con le sue credenze e suddetta fiducia oggi so che non riuscii mai a guadagnarmela del tutto.
Nel frattempo, il dottor Wright cercava l’esatta combinazione di farmaci da somministrare a Kieran che ci aiutasse nella terapia.
Io e Charles, a quei tempi, parlavamo molto al telefono. Malgrado avessi altri pazienti che versavano in condizioni non migliori di quelle di Kieran, provavo nei confronti del ragazzo un’attenzione particolare: forse perché vedevo in lui del potenziale, forse perché era un soggetto affascinante – come un enigma da risolvere: era uno schizofrenico, per certi versi, atipico; forse ancora perché empatizzavo con il suo vissuto, rimasto orfano di padre quando era solo un bambino, o perché presi a cuore le implicite richieste che mi arrivavano dallo sguardo di Mrs Langley ogni qual volta veniva a portare o riprendere il figliolo. Non so dirlo con certezza, ma la verità è che io e Charles ci confrontavamo almeno una volta a settimana: se vedevo Kieran troppo spento esprimevo al collega i miei dubbi in merito ai medicinali che gli aveva prescritto; idem per quando era troppo agitato, o assente, o quando le sintomatologie (le già citate manie di persecuzione e allucinazioni uditive su tutte) disturbavano il corso delle nostre sedute.
Il dottor Wright ci mise diverse settimane a trovare la giusta cura farmacologica. Alla fine riuscì a stabilizzare Kieran – nonostante vada ammesso che episodi di delirio si manifestarono comunque – combinando il litio alla clozapina, alla quetiapina e a un ansiolitico in gocce a base di benzodiazepine da prendere sia la sera a dosaggio basso per consentirgli di dormire, sia alla bisogna in caso si fossero verificati momenti di agitazione.
Tutto ciò avvenne nell’aprile 2017, in concomitanza con i miei primi tentativi con la plastilina come ausilio terapeutico.
Prima della plastilina, avevo suggerito al mio paziente di tenere una sorta di diario – compito settimanale – per raccogliere i suoi pensieri durante la mia assenza. L’accordo prevedeva poi, una volta al mese, di leggere assieme quelle pagine che lui avrebbe ritenuto più importanti o interessanti per affrontare noi due soli eventuali turbamenti, speranze o incertezze. Avanzai questa proposta in più momenti, ma Kieran non la prese mai in considerazione.
O così credetti.
Ma andiamo con ordine.
Dopo quel pomeriggio passato con Mrs Langley – riuscimmo a tenere il ragazzo fuori casa grazie all’aiuto di Mr Oswald, il quale portò il nipote a far compere – accantonai l’idea del diario e sposai quella della plastilina. L’incontro mi fu utile non solo per vedere la stanza da lavoro e farmi dare qualche informazione in più da Carol, ma anche per raccomandarmi lei si assicurasse che Kieran prendesse i suoi farmaci.
Le cose cominciarono ad andare meglio.
Kieran prese a parlare di più e con maggiore spigliatezza e coerenza. Appresi che non solo a me aveva dato un nuovo ruolo nell’economia delle sue conoscenze, ma anche al dottor Wright (divenuto un generico “scienziato” forse per via del camice). Nella mente di Kieran non erano ammesse ripetizioni: lo slot da “psicoterapeuta” era già stato occupato da Frances Stanley – di cui mi parlò con umori altalenanti in diverse occasioni –, quello di “psichiatra” dal neurologo da cui era andata la madre anni prima, quello di “dottore” chissà da chi altro e via discorrendo. Ogni volta che incontrava una nuova persona lui sentiva la necessità di catalogarla con una parola chiave (presumo per tentare di mettere ordine nel caos che imperversava nella sua testa); tale parola spesso coincideva con la professione, altre col ruolo o il legame di sangue: Carol era solo “mamma”, Mr Oswald solo “zio”.
Ebbi il fiero dubbio che l’esigenza di etichettatura, corredata dalla non ammissibilità di reiterazioni, derivasse da come Kieran aveva imparato a conoscere il mondo nei primi anni della sua vita. La routine dei Langley aveva fatto sì che i proprietari delle botteghe a cui si rivolgevano per i loro acquisti fossero gli unici esponenti di mansioni specifiche, per questo, ad esempio, il panettiere non era un panettiere ma, appunto, il panettiere. Un unicum. Ed è lecito supporre che fu per questo motivo che Kieran trovò insostenibile continuare gli studi: i professori erano tanti, i compagni ancora di più. L’angoscia che sentiva nell’aula era motivata dal fatto che non riuscisse a incasellare tutti quegli individui. Pretendevano di essere un insieme e lui abbisognava di appuntare al loro petto una sola definizione e questa incongruenza mandava Kieran in cortocircuito.
Provai a insinuare dei dubbi nel suo sistema ponendo semplici domande, anche per introdurre il concetto di relatività e spodestarlo dal trono che aveva eretto per se stesso che lo vedeva come unico punto di vista autentico – insindacabile protagonista in un mondo popolato da comparse, nemici, aiutanti ma, soprattutto, utensili.
«Tu chi sei?» chiesi una volta.
«Kieran Langley».
«E per Carol, chi sei?»
Anziché rispondermi “figlio”, disse: «Carol Langley è mia madre».
«E per Oswald Langley, chi sei?» provai una volta ancora.
E, di nuovo, invece di pronunciare la parola “nipote”, replicò la stessa formula che lo preservava come unico vero soggetto: «Oswald Langley è mio zio».
Quando osai levarlo dall’equazione cercando la relazione tra Carol e Mr Oswald – cognati – arrivò il ticchettio che lo portò via dal mio questionario.
Ecco: il ticchettio si faceva più assordante quando i nostri dialoghi prendevano delle strade che Kieran non voleva percorrere. E non c’era verso di compiere qualche passo indietro per tornare in zone più confortevoli per lui. Se il rintocco dei suoi orologi immaginari si presentificava per metterlo in salvo, potevo anche chiudere il mio taccuino e congedarlo.
Metabolizzato ciò, tra le altre cose, mi rassegnai al mio essere l’orologiaio, rassicurandomi del fatto che fosse una situazione momentanea, che un giorno sarei riuscito a smontare simili impalcature.
Quel giorno non arrivò mai.
Anzi, venni fagocitato – bada bene, lettore: l’ho scoperto solo qualche settimana fa, ma pazienta ché ora ci arriviamo – da una definizione ben più grande.
Il 2019 fu l’anno delle associazioni tra plastilina e mitologia.
Facevamo progressi e avevo il sentore che presto Mr Langley sarebbe riemerso.
L’idillio durò fino a metà 2020, quando le mie illusioni vennero spazzate via da crolli improvvisi e per me, allora, immotivati.
Ho potuto dare una risposta certa alle regressioni di Kieran solo troppo tardi, quando Mrs Langley, dopo quell’infausto giorno, trovò nascoste nei cassetti della scrivania del marito all’interno della stanza da lavoro di Kieran decine di pasticche: il ragazzo aveva smesso di prendere i suoi farmaci di punto in bianco senza che nessuno lo sapesse.
È ovvio che il sospetto mi venne, ma quando telefonavo a Carol chiedendole se era sicura che il figlio assumesse le medicine lei mi tranquillizzava affermando che sì, ne era certa, poiché lo faceva dinanzi a lei. Non avevo motivo di dubitare delle sue parole, era sempre stata molto più che disponibile con noialtri e collaborativa. Entrambi non considerammo il fatto che vederlo mettere in bocca le compresse non significava che egli le ingoiasse. Infatti le risputava una volta rinchiusosi nella sua camera. Una disattenzione e un semplicismo che, ancora oggi, non riesco davvero a perdonarmi.
Tornarono gli sragionamenti, i deliri, le voci.
Come tornarono gli sguardi vivisezionanti, prima di sospetto, poi di paura.
Mi temeva e non comprendevo il perché.
Dopo un mese dall’insorgenza del tracollo – all’incirca quattro sedute –, chiamai il dottor Wright chiedendogli di ricontrollare i farmaci, supponendo avessero smesso di fare effetto. Immaginai che l’assuefazione avesse azzerato i benefici dei medicinali e che ci fosse bisogno di prescriverne altri. Charles si dimostrò scettico in merito, ma, dopo un colloquio con Kieran, prescrisse una nuova terapia.
Eravamo al punto di partenza.
Non nego che provai una grande frustrazione in merito, ma mantenevo la mia fede in relazione al lavoro svolto sino a quel momento col ragazzo: se eravamo riusciti una volta a trovare dei punti di incontro, saremmo sicuramente stati in grado di risollevare le sorti della nostra relazione.
Mi hanno accusato – e forse lo hai fatto anche tu, lettore – di eccessiva caparbietà nel non consigliare a Kieran un nuovo psicologo dato che con me le cose non andavano più molto bene, come se il mio amor proprio non mi consentisse di accettare la sconfitta.
Non fu così.
Non solo perché non è di “sconfitte” che si parla quando una terapia non conduce agli esiti sperati (né che essa riguardi lo psicologo, il paziente, o il rapporto che essi instaurano); non solo perché l’orgoglio, pur mantenendolo, chi esercita la mia professione è abituato a metterlo da parte in quanto il nostro è un lavoro e non una missione, una beneficenza e nemmeno se il paziente si dimostra ostile possiamo permetterci di prenderla sul personale. Ma perché pensai davvero che indirizzarlo verso un collega avrebbe figurato come una sorta di abbandono; che ricominciare a fidarsi di qualcun altro sarebbe stato complicato per il ventenne che Kieran era diventato, poiché, prima che smettesse di prendere i farmaci, un nostro equilibrio che faceva sì che le cose tra noi funzionassero lo avevamo.
Molto è stato scritto su di me in quel periodo. Le opinioni e i giudizi del volgo sono fioccati e i titoli di certi giornaletti mi hanno tormentato per mesi: bastava io chiudessi gli occhi per leggere e rileggere “psicologo killer uccide paziente”.
Lascia che sia io, lettore, a raccontarti cosa successe quella sera.
Consentimi di prendere la parola per difendermi perché sono stato in silenzio fin troppo tempo.
La nostra ultima ora di terapia.
Lui che, rigirandosi tra le dita la plastilina, pronunciò la parola “sparachiodi”.
Io che non seppi leggere correttamente quella che era una dichiarazione d’intenti.
Il giorno dopo, il 22 dicembre 2020, stavo riordinando i miei appunti dopo l’ultima seduta.
Era un martedì, lo rammento come fosse ieri.
Ero stanco, non vedevo l’ora di spogliarmi, mettere il pigiama e preparare la cena.
Feci a malapena in tempo a levarmi il panciotto quando sentii colpi furenti alla porta di casa.
Guardai dallo spioncino e, con sommo stupore, vidi Kieran dall’altro lato dell’uscio.
Lo feci entrare, preoccupato fosse accaduto qualcosa a Carol.
Lui era sudato, affannato, ipotizzai mi avesse raggiunto correndo.
«Cosa è successo, Kieran?», domandai, «Mamma sta bene?»
Lui non rispose.
Teneva le mani dietro la schiena e mugugnava sillabe sconnesse.
Da questo momento in poi i miei ricordi non sono nitidi poiché tutto accadde con troppa velocità.
Tirò fuori la sparachiodi e me la puntò contro. Istintivamente gli afferrai il braccio e il primo colpo partì verso il soffitto, in alto. Seguì una colluttazione che durò minuti o secondi, non so dirlo. Kieran era molto magro, è vero, ma forte e giovane e più alto di me. Feci un’enorme fatica nel tentativo di bloccarlo e disarmarlo, si divincolava in preda a una furia omicida che mai avrei sospettato potesse incombere. Forse urlai; forse lo pregai di smettere, di calmarsi. O forse non dissi nulla e i miei furono solo pensieri che non si tradussero in suoni. Cademmo in terra, ci rotolammo sul pavimento. Urtammo la libreria e alcuni oggetti rovinarono dagli scaffali. Partirono diversi colpi. E, infine, non so come, avvinghiati l’uno all’altro, quelli fatali: un chiodo trafisse l’occhio destro di Kieran, un altro la tempia dello stesso lato.
Si accasciò sul mio corpo, esanime.
Morì tra le mie braccia.
Sono passati quattro anni e ancora mi si inumidiscono gli occhi se ne parlo o, come in questo caso, lo scrivo.
Il resto è storia.
Le accuse, la gogna mediatica, il processo, il responso di omicidio colposo e la detenzione di quattro anni che sto per terminare.
È dal carcere che sto scrivendo.
Tra due mesi sarò fuori e non so davvero cosa la mia nuova vita mi riserva.
Di fine e inizio, si diceva.
Forse ti starai chiedendo, lettore, perché io mi sia messo a raccontarti questi fatti. Le motivazioni sono molteplici e la riabilitazione del mio nome – sarei in malafede se non la ammettessi – solo l’ultima della lista.
Non potevo permettere che Kieran venisse dimenticato o che figurasse come semplice vittima di un fatto di cronaca nera che sarebbe stato cancellato con le altre brutture che, quotidianamente, capitano nel mondo. Un caso tra i casi. No, non avrei potuto sopportare che Kieran diventasse l’ennesima fonte di nutrimento per quegli avvoltoi che si cibano di morte e morbosità. Lui era una persona ricca di contenuti e possibilità; un ragazzo tormentato da una malattia infida che non sapemmo leggere nel modo corretto.
Quando Carol mi ha dato il permesso di scrivere del figliolo – cara donna, è venuta a trovarmi spesso da quando sono qui recluso; condividiamo il dolore e il senso di colpa che ci accompagnerà fino alla fine dei nostri giorni – non ho avuto più dubbi.
Ma c’è un altro motivo. Forse il più forte e che è emerso poche settimane addietro.
Tutti ci siamo chiesti: perché? Perché Kieran si è presentato a casa mia quella sera, armato e con mortali intenzioni? Qual era il movente che ha fatto balenare nella mente del compianto ragazzo l’idea di assassinarmi?
Oggi posso dare una risposta grazie a Mrs Langley, la quale, accettato l’accadimento e decisasi, perciò, a smantellare la stanza da lavoro di Kieran, ha trovato il suo diario.
Aveva cominciato a scriverlo davvero, pur se non lo aveva rivelato a nessuno.
Carol me lo ha portato per chiudere un cerchio; per lenire le mie sofferenze e consentirmi di smettere di torturarmi con quesiti irrisolti.
Di seguito riporto degli estratti dal diario di Kieran così come sono (ovvero senza data e con punteggiatura per lo più assente), per darti l’opportunità di comprendere ciò che io stesso ho al fine compreso.
Mio padre mio padre tutti hanno un’ossessione per mio padre
Ma chi è questo padre
Io non ho padre
[…]
L’orologiaio mi fa troppe domande
[…]
L’orologiaio mi inganna mi manipola
[…]
Quei dannati orologi! Non li vedo non so dove li tenga Mi tortura mi tortura il ticchettio assordante in quella casa Lo sogno la notte e mi resta nelle orecchie sempre sempre sempre sempre Mi ha fatto un incantesimo
Il tempo il tempo che mi resta lui lo scandisce
Cosa significa?
Tic tac
Tic tac Tic tac tic Tac
IMPAZZISCO
[…]
Ho capito
Mia madre mi parla di padre e si ostina a lasciarmi dall’orologiaio Deve essere lui ma nessuno me lo dice
[…]
L’orologiaio è mio padre
[…]
L’orologiaio è mio padre ed è uno stregone I suoi orologi misurano l’eternità
[…]
Vecchio padre tempo
ora ricordo tutto
[…]
È troppo tardi per i miei fratelli Li ha ingoiati tutti chissà da quanto non posso salvarli
Sono solo e devo pensarci io prima che mangi anche me
Mamma mi ha nascosto e poi mi ha venduto perché?
Per compiere il mio destino
Zeus deve uccidere Crono
Ero uno psicoterapeuta.
Divenni orologiaio.
Mi trasformai in padre.
Finii con l’essere il tiranno Crono, divoratore di figli.
Non biasimo Kieran per aver provato a fermarmi.
Ma il mito, per come lo ricordo, avrebbe dovuto avere un altro epilogo.
Autrice: Federica S. (IG: @rameldellewodod)
Illustratrice: Giulia R. (IG: @luaith_art)
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